La situazione in Medio Oriente potrebbe essere un moltiplicatore delle dinamiche terroristiche in questo momento. Per Bertolotti (Start Insight), “il vero successo risiede nel ‘blocco funzionale,’ ossia la capacità degli attacchi di compromettere i servizi essenziali, impegnando le forze armate e di polizia, disturbando la mobilità urbana e ostacolando le normali attività quotidiane”
Ci sono manifestazioni come quelle “ProPal” di sabato, dove neofascisti e gruppi violenti di sinistra si uniscono contro Israele e più in largo contro l’Occidente dove vivono e potrebbero sfruttare la situazione per azioni contro il cosiddetto “ordine costituito”; c’è la possibilità che si allarghi la guerra asimmetrica condotta dai gruppi armati collegati all’Iran, con l’Italia che potrebbe diventare terreno di attacchi anti-israeliani e anti-occidentali; c’è il timore che il caos innescatosi in Medio Oriente possa fare da moltiplicatore per le predicazioni costanti dei grandi gruppi jihadisti come Stato islamico e al Qaeda e l’innesco di quel meccanismo di auto-indottrinamento e radicalizzazione self-made più volte vista in passato (e recentemente tornata tra i fatti di cronaca italiana per la vicenda del ventiduenne di origini egiziane arrestato in provincia di Bergamo con l’accusa di proselitismo online).
È un momento critico, tanto che il Viminale, visto il contesto, ha recentemente disposto una serie di misure per rafforzare la sicurezza di fronte a potenziali minacce terroristiche. La scorsa settimana, sono stati intensificati i controlli sui soggetti ritenuti a rischio e potenziata la collaborazione con le forze di sicurezza internazionali per prevenire eventuali attacchi. Come ha spiegato il ministro Matteo Piantedosi, incontrando la stampa presente a Merabella Eclano per il G7 dedicato agli Interni, queste decisioni rispondono all’evoluzione della minaccia terroristica e si inseriscono in un più ampio quadro di prevenzione e protezione, con particolare attenzione agli eventi di rilevanza pubblica e alle infrastrutture critiche.
“Il terrorismo jihadista oggi è particolarmente rilevante, collegato alle dinamiche storiche conflittuali delle relazioni internazionali in Medio Oriente, Asia e Africa, e alla violenza derivante da una lettura radicale dell’Islam”, spiega Claudio Bertolotti, direttore di Start Insight, think tank italo-svizzero che in questi giorni ha pubblicato il rapporto “ReaCT2024” sul terrorismo e il radicalismo in Europa” Si tratta di una minaccia che trova radici profonde nella complessità dell’evoluzione storica e rappresenta una sfida ideologica diffusa. Questa dinamica conflittuale si lega sempre più alla ricerca di identità da parte di gruppi e individui, “in particolare tra una parte non marginale degli immigrati maghrebini di seconda e terza generazione in Europa,” che si contrappongono a una crescente componente di immigrati di prima generazione appena arrivati.
Tutto è moltiplicato dalla dimensione geopolitica e politico-internazionale: un fattore che sta influenzando l’analisi delle realtà che si occupano di sicurezza, anche in Italia. Una riflessione necessaria invita a ripensare la definizione stessa di terrorismo, “non più da intendere come azione volta a ottenere risultati politici attraverso la violenza, ma come effetto della violenza stessa, anche in assenza di un’organizzazione strutturata alle spalle”, spiega Bertolotti a Formiche.net. Questa nuova lettura è essenziale per comprendere il fenomeno nella sua evoluzione contemporanea.
All’interno della galassia jihadista, “il terrorismo è uno strumento di lotta, resistenza e prevaricazione,” con diversi gradi e modelli di violenza: individuale, organizzata, ispirata o insurrezionale, come abbiamo visto in Afghanistan, Iraq e ora nella Striscia di Gaza, dove l’esercito israeliano si confronta con Hamas – di fatto un’organizzazione terroristica che ha costruito una standing politica e nel 2007 è riuscita a farsi in qualche modo amministrazione pseudo-statuale nell’enclave palestinese.
L’esperienza afghana, studiata da vicino da Bertolotti, e la violenza derivante dall’appello di Hamas a colpire Israele e i suoi alleati hanno svolto un ruolo determinante nella ripresa di un terrorismo ispirato ed emulativo a livello globale. Questo fenomeno si basa sia sulla vittoria dei talebani contro l’Occidente sia sulla rabbia alimentata dalla strategia comunicativa di Hamas, che trova eco in alcune minoranze ideologizzate in Occidente, confondendo l’agenda violenta di Hamas con le istanze palestinesi. “Attraverso la retorica jihadista, questi eventi dimostrano la bontà e la fondatezza del jihad come strumento di lotta, vittoria e giustizia”.
Oggi, accanto a Afghanistan, Iraq e Gaza, “sono le dinamiche conflittuali in Medio Oriente e il terrorismo mediatico di Hamas a svolgere il ruolo di spinta ideologica e di coinvolgimento di massa”, provocando manifestazioni emulative di violenza che “potrebbero portare a nuovi attacchi terroristici in Europa e nei paesi del Nord Africa, dell’Africa subsahariana e del Sahel”.
Il fenomeno della radicalizzazione jihadista in Europa affligge maggiormente alcuni gruppi etnici e nazionali? “Vi è un chiaro rapporto di proporzionalità tra i principali gruppi di immigrati e i terroristi, in particolare per quanto riguarda le comunità di origine maghrebina”, risponde l’esperto. In particolare, si osserva una predominanza di terroristi di origine marocchina e algerina in paesi come Francia, Belgio, Spagna e Italia. Comunità numerose di immigrati marocchini e algerini, “soprattutto in Francia e Belgio, hanno visto un numero elevato di giovani aderire a gruppi jihadisti”.
“Un dato rilevante – continua – riguarda il fatto che una percentuale significativa di terroristi era già nota alle forze di polizia o ai servizi di intelligence”. Secondo il database di Start InSight, il 44% degli attentatori nel 2021 era già noto alle autorità, un dato che nel 2023 è salito al 75%. Questo conferma che “la radicalizzazione spesso avviene sotto gli occhi delle autorità, che tuttavia non riescono sempre a intervenire in tempo”, spiega Bertolotti. Gli individui con precedenti detentivi rappresentano inoltre una parte significativa di questi attentatori, “con i luoghi di detenzione che continuano a rivelarsi spazi potenziali di radicalizzazione”.
Qual è la reale capacità distruttiva del terrorismo? “Il successo strategico delle azioni terroristiche rimane marginale, con un calo dal 16% al 13% nel periodo considerato”. Nonostante il livello di allerta rimanga alto, l’effettiva capacità dei terroristi di ottenere risultati impattanti sul piano strutturale è limitata. “Il blocco del traffico aereo o ferroviario, la mobilitazione delle forze armate e l’introduzione di nuove leggi di ampia portata sono risultati rari”.
E dunque, il livello tattico suscita preoccupazione, ma è davvero la priorità per il terrorismo? “Anche se le azioni mirano a provocare la morte del nemico, questo obiettivo è stato raggiunto in media nel 50% dei casi tra il 2004 e il 2023”, risponde il direttore di Start Insight. Tuttavia, “la tendenza degli ultimi anni mostra un aumento degli attacchi fallimentari, con un numero crescente di azioni a bassa intensità”, che rappresentano comunque una minaccia costante, pur senza ottenere l’impatto desiderato.
Quindi dove risiede il vero successo del terrorismo? “Il vero successo risiede nel ‘blocco funzionale,’ ossia la capacità degli attacchi di compromettere i servizi essenziali, impegnando le forze armate e di polizia, disturbando la mobilità urbana e ostacolando le normali attività quotidiane”. Anche quando gli attacchi non causano vittime, “infliggono danni diretti e indiretti, imponendo costi economici e sociali significativi e riducendo la resilienza delle comunità colpite”. Secondo i dati del rapporto ReaCT, questo “blocco funzionale” si è verificato nell’80% dei casi dal 2004, raggiungendo un picco del 92% nel 2020.