Ci sono vari segnali sulla possibilità di una tregua sul fronte nord, tra Israele e Hezbollah. La finestra di opportunità è limitata, e inoltre potrebbero esserci intralci. Il calcolo strategico riuscirà a incanalarsi verso un cessate il fuoco?
“Sono a Washington,” scrive su X Amos Hochstein, super consigliere della Casa Bianca per “Energy & Investments” e mediatore con alcuni attori mediorientali. Hochstein twitta un link a un articolo del New Arab, sito londinese ben informato sull’area Mena, che indicava l’alto funzionario americano in Israele. La ragione del teorico viaggio — che potrebbe avvenire nei prossimi giorni e toccare anche il Libano — emerge indirettamente dalle Israeli Defence Forces, che affermano di aver raggiunto i loro obiettivi militari in Libano, lasciando spazio a una possibile risoluzione diplomatica per porre fine al conflitto nel Nord.
C’è dunque margine per negoziati sul fronte settentrionale della guerra che avvolge Israele dal 7 ottobre, quando Hamas dichiarò l’inizio dell’attuale stagione di conflitto con un attacco devastante contro lo Stato ebraico, cui il governo Netanyahu ha risposto con altrettanta violenza per ribadire le sue priorità di difesa nazionale.
Fonti regionali spiegano che Hochstein durante un recente viaggio in Libano ha trovato un accordo per spingere Hezbollah a nord del fiume Litani, attuare una versione “estesa” della Risoluzione 1701, istituire un meccanismo di monitoraggio internazionale per “impedire il riarmo di Hezbollah” (quest’ultima appare più come un pensiero positivo a cui tendere in un indefinito futuro). L’accordo dovrebbe iniziare con un “periodo di aggiustamento” di 60 giorni, ma si dice che i libanesi abbiano avvertito che la finestra di opportunità potrebbe chiudersi presto.
La tempistica di queste dinamiche è interessante: quattro giorni fa, Israele ha colpito obiettivi militari iraniani in risposta a un attacco ricevuto dall’Iran il primo ottobre. Questi obiettivi, a quanto pare, erano stati concordati con gli Stati Uniti, che garantivano copertura diplomatica — e militare, se necessario — in cambio di alcune condizioni, tra cui evitare attacchi al sistema petrolifero e ai siti nucleari iraniani.
Le garanzie fornite da Washington, specialmente in questa fase pre-elettorale, sono delicate: non è ancora chiaro come reagirà l’Iran, ma la retorica recente fa temere un’ulteriore rappresaglia. Va da sé che l’innesco di una serie di azioni e contro-reazioni può produrre una escalation che porta verso una inevitabile deriva: una guerra totale regionale tra Iran e Israele. Per tale ragione è possibile pensare che tra le garanzie che Israele ha dovuto fornire a Washington ci sia stata anche quella dell’inizio del disingaggio dal fronte contro Hezbollah.
Il gruppo armato libanese è il fiore all’occhiello del cosiddetto asse della resistenza con cui l’Iran esercita influenza e pressione regionale. Teheran tende da sempre a difendere Hezbollah e, in questo quadro, un possibile cessate il fuoco sul fronte libanese potrebbe essere anche una forma di appeasement tra Israele e Iran. Non è escluso che l’Iran scelga di non procedere con la rappresaglia, considerando la tregua tra Israele e la milizia libanese — magari facendo ruotare la narrazione in questo modo: Israele teme una ritorsione e per questo ferma le armi. Rimane da vedere se gli interessi sul campo e quelli degli attori esterni, come gli Stati Uniti, saranno effettivamente efficaci nel contenere le tensioni.
Ieri il governo israeliano ha fatto trapelare che la rappresaglia contro l’Iran non è terminata, e potrebbe esserci una nuova ondata per punire Hezbollah, accusato di aver tentato di colpire la residenza privata di Benjamin Netanyahu. Israele attribuisce la responsabilità di questo attacco direttamente all’Iran, sebbene sia improbabile che Teheran abbia agito in modo così provocatorio, ammesso che rimanga valida la sua strategia di evitare un conflitto esteso. Le spifferate su nuovi raid israeliani sono dovute anche a una serie di equilibri interni in cui il governo stesso deve gestire le posizioni più oltranziste espresse dalle forze di estrema destra-che sono fondamentali per il mantenimento della maggioranza.
D’altra parte, anche Hezbollah, Hamas e l’Iran beneficiano della retorica aggressiva e militarista. Oggi, il partito libanese ha annunciato di aver scelto un nuovo leader supremo (figura simile a quella della Guida nella Repubblica Islamica). La nomina si è resa necessaria dopo che Israele ha ucciso Hassan Nasrallah in un raid aereo; sarà sostituito dal suo vice, Naim Qassem — anche perché due giorni fa l’organizzazione ha confermato che il successore designato, Hashem Safieddine, è stato anch’egli ucciso in una altro raid israeliano due giorni dopo di Nasrallah.
Nel comunicato ufficiale, il Consiglio della Shura ha dichiarato di aver eletto Qassem, “chiedendo a Dio Onnipotente di guidarlo in questa nobile missione nel guidare Hezbollah e la sua resistenza islamica”. Il concetto di “resistenza” implica il combattimento armato contro Israele, nemico esistenziale. Ma una tregua momentanea potrebbe essere nell’interesse di tutte le parti coinvolte.
Hezbollah vuole evitare la distruzione del proprio arsenale; l’Iran, dal canto suo, perderebbe uno dei suoi asset strategici principali se Hezbollah fosse pesantemente indebolito. Per Israele, un accordo al confine avrebbe sia un obiettivo politico che tattico: l’impegno prolungato nel Nord ha infatti ripercussioni in termini di armamenti, economia e tenuta sociale.
Per gli Stati Uniti, evitare l’escalation e trovare una forma di accomodamento potrebbe avere un valore elettorale. La candidata democratica, la vicepresidente Kamala Harris, potrebbe rivendicare questo risultato come un successo da proporre agli elettori. Inoltre, un cessate il fuoco potrebbe favorire anche uno scambio di ostaggi con Hamas, che include cittadini americani, sebbene i due fronti presentino dinamiche e sensibilità diverse. Non a caso, il direttore della Cia, Bill Burns, ha recentemente discusso di questo con israeliani e qatarini.