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No alla corrida tra toghe e politica. Parla il giudice Russo

Dalla bocciatura del trasferimento dei migranti in Albania al processo nei confronti di Salvini il muro contro muro fra politica e magistratura ha superato il livello di guardia. Sulle motivazioni di quella che è stata definita una corrida Gianfranco D’Anna ha raccolto la voce del magistrato Massimo Russo

Dalla guerriglia all’attacco frontale. Con una netta prevalenza del centro destra e una non indifferente compartecipazione della sinistra, ogni qual volta che inchieste giudiziarie, processi e sentenze intaccano o lambiscono esponenti di governo e dei partiti, la politica scaglia l’anatema della delegittimazione della magistratura. Un’anatema che alla contestazione del processo e alla negazione del controllo di legalità aggiunge il veleno dell’intento pregiudiziale da parte delle toghe.

È uno degli aspetti più delicati e problematici del singolare rapporto nel nostro Paese tra politica e magistratura, accusata senza mezzi termini di interferire e ostacolare le scelte parlamentari e governative ed attaccata con invettive e manifestazioni pubbliche che si trasformano in momenti di scontro diretti con i singoli giudici da parte di inquisiti eccellenti o di esponenti istituzionali. Una conflittualità che non solo alimenta, ma di volta in volta innalza, il livello della contrapposizione fra istituzioni.

Ma da cosa dipende il corto circuito? Dalla sindrome dell’impunità che spesso illude alcuni politici o dal delirio di onnipotenza che talvolta pervade qualche magistrato? Le leggi sono elaborate e promulgate dalla politica, e vengono applicate dalla magistratura. Due ambiti chiari e distinti che si basano sulla “responsabilità”, che in un sistema di democrazia liberale costituisce il valore principale essenziale nei comportamenti di tutti i protagonisti degli organi istituzionali e costituzionali. “Eppure c’è sempre un’occasione, un pretesto per fare esplodere i contrasti fra politica e magistratura: i processi contro imputati eccellenti, le indagini contro la criminalità dei colletti bianchi e oggi anche gli immigrati!”, dice Massimo Russo, allievo di Paolo Borsellino negli anni ‘90 alla Procura di Marsala, successivamente pm antimafia e attualmente alla Procura per i minori di Palermo.

Anche se in crescendo, il muro contro muro fra alcuni settori della politica e la magistratura è una costante, oppure nel caso dei migranti c’é di più?

Per certi aspetti è pure fisiologico, dovendo la giurisdizione occuparsi di parti ed interessi contrapposti. Tuttavia, in Italia lo scontro ha rischiato di tradursi troppo spesso in un pernicioso conflitto tra poteri delle Stato, destinato a sfibrare la nostra democrazia. Oggi l’occasione è data da decisioni dei giudici che sembrano andare in rotta di collisione con la politica governativa sul tema, delicatissimo e complessissimo, dei migranti. Il punto è che l’interpretazione e l’applicazione della legge costituiscono l’essenza stessa della giurisdizione, assistita e garantita dall’autonomia ed indipendenza dell’ordine giudiziario, e dunque rientra nell’ordine naturale delle cose che una decisione che riguarda una vicenda particolare e circoscritta, possa finire per avere una valenza “politica”, specialmente quando le norme richiamano concetti e criteri “politicamente” sensibili. Dall’altra parte, il governo ha la piena responsabilità democratica dell’esecuzione del programma politico e dell’attuazione delle misure conseguenti a quelle norme di legge approvate dalla maggioranza parlamentare che lo sostiene allo scopo di infrenare il fenomeno migratorio, assicurare la sicurezza del nostro Paese, gestire gli arrivi in linea con i principi sovranazionali. Ed è fin troppo ovvio che le scelte politiche in materia non possano essere sindacate dai giudici, ma solamente dai cittadini nell’ esercizio della sovranità popolare.

Come recuperare l’equilibrio fra l’indipendenza della magistratura, sancita dalla Costituzione, e la legittimità dell’azione di governo?

Ciò passa per la responsabile consapevolezza della ontologica diversità delle loro rispettive funzioni e, soprattutto, della loro rigorosa perimetrazione: ciascuno al suo posto ma con l’obbiettivo di fare crescere progredire la nostra nazione, promuovendo e rispettando i diritti ma con la coscienza che a tutti competono i correlativi doveri. La Giustizia è chiamata ad esprimere le proprie decisioni senza condizionamenti di altri poteri e la giurisdizione è affidata all’ordine giudiziario che la esercita nel nome del popolo italiano, nel rispetto del principio costituzionale di uguaglianza. Ma anche un forte richiamo ai magistrati alla responsabilità di un ruolo che richiede fermezza, sobrietà, serietà e tanto, tanto buonsenso, anche quello di stare immersi nella realtà. Non tocca certo ai magistrati indicare le soluzioni, ma alla politica. Però possiamo auspicare, anche come cittadini, che questa legittima istanza della politica si svolga nel quadro dei principi sanciti dalla nostra costituzione. Il giusto e necessario primato della Politica non può però significare onnipotenza della politica cioè di una politica sottratta ad ogni regola: la legalità non è un bene politicamente negoziabile né suscettibile di transazioni.

Ma le toghe non hanno nulla da rimproverarsi?

Essendo la giurisdizione un potere diffuso, non è la magistratura nel suo complesso a doversi porre questa domanda, ma i singoli magistrati. Ma dubito che abbiano, che abbiamo, l’umiltà di farlo! Dovendo stare al di sopra delle parti quando esercitiamo il nostro mestiere, abbiamo finito con il sentirci al di sopra di tutto e di tutti, onnipotenti ed onniscienti, il sale della terra, giusto per richiamare la parafrasi biblica utilizzata nel Gattopardo!


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