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Tra politica e magistratura il confine è la legge. I giudici? Occorre prudenza. Parla Mirabelli

Secondo il presidente emerito della Corte Costituzionale, sul provvedimento di mancata convalida dei fermi dei migranti mandati in Albania e poi tornati in Italia si può certamente discutere, cercando di comprendere l’interpretazione autentica della legge comunitaria su cui si basa la disposizione del Tribunale di Roma. Il confine tra politica e magistratura? I giudici sono soggetti solo alla legge, lo dice la Costituzione, ma da parte loro occorre prudenza e autocontrollo

Gi attriti tra politica e magistratura non sono certo prerogativa esclusiva dell’attuale esecutivo, ma il livello di scontro raggiunto degli ultimi giorni non si vedeva da tempo. Tutto parte, almeno in quest’ultimo round, dalla decisione del Tribunale di Roma di non convalidare il fermo dei migranti trasferiti nei Centri di smistamento in Albania. Le conseguenze della decisione, il ritorno dei 12 migranti in Italia e una situazione difficile da gestire per Palazzo Chigi. A cavalcare il tutto, la politica: le opposizioni hanno chiesto conto al governo delle decisioni prese, mentre la maggioranza di governo si domanda se e quanto i giudici possano prendere decisioni politiche che spettano invece all’esecutivo. Formiche.net ne ha parlato con Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale.

Presidente, partiamo dalla fine, le parole del Presidente Mattarella sulla necessità di “esercitare capacità di mediazione e sintesi” e non limitarsi ad “affermare la propria visione delle cose – approfondendo solchi e contrapposizioni”. Parla al festival delle Regioni perché governo intenda?

Mi pare che sia un’osservazione di carattere generale, cioè che occorre equilibrio, leale cooperazione, questo è un dovere tra le istituzioni, quindi evitare le polemiche e abbassare i toni se ci sono delle criticità. Uso un detto romano, forse poco bello ma significativo, “calma e gesso”, cioè calma e un momento di approfondimento e razionalità e ragionevolezza nelle valutazioni.

Lo scontro in corso nasce dalla decisione del Tribunale di Roma di non convalidare i fermi dei migranti mandati nei centri in Albania, riportati ora in Italia. Come valuta il provvedimento?

Come tutti i provvedimenti è discutibile, bisogna valutare se è corretto o meno. Ci sono gli altri gradi di giudizio che sono necessari proprio per correggere gli errori in buona fede, e anche quelli intenzionali. In questo caso c’è una restrizione, in un certo senso, perché a quanto mi sembra non c’è un grado di appello, ma solamente un ricorso per Cassazione che è di legittimità e che può essere percorso. Insomma, dei rimedi processuali rispetto agli errori e alle manchevolezze dei giudici. Il problema, però, è un altro.

Quale?

I tempi, perché i rimedi normali possono avere, hanno normalmente, una lentezza che non è risolutiva per le questioni che si pongono se la giustizia non è immediata, ossia con la stessa rapidità con la quale il giudice di primo grado si è pronunciato sulla non convalida sulla procedura di ritenzione e poi espulsione delle persone. Questo dal punto di vista degli strumenti di reazione attualmente disponibili. Oppure la legge può prevedere che questa disciplina sia appellabile e al limite costituire dei collegi che si compongano nelle corti d’Appello per questa funzione.

Dal punto di vista sostanziale, invece?

Dal punto di vista sostanziale, un’osservazione: è vero che il diritto comunitario prevale sul diritto nazionale, ma è da verificare se l’interpretazione del diritto comunitario che è stata data dal giudice è corretta o meno. Il riferimento è a una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che sostanzialmente stabilisce il principio per il quale uno Stato può essere in via generale considerato sicuro ma può non essere sicuro laddove per determinate categorie di persone o per parte del suo territorio vi sia una situazione di conflitto o insicurezza. Ma non è che la insicurezza di una parte dello Stato, o rispetto a determinate categorie, cancella la sicurezza in via generale dello Stato. Significa che per quella specifica persona dovrà essere provato che appartiene a una categoria di persone o a una parte dello Stato nella quale questa sicurezza non c’è. Immagino una minoranza politica o una minoranza negli orientamenti sessuali che è perseguitata. Allora, perché non ci sia la convalida occorre che ci sia questa compressione dei diritti nello Stato rispetto a determinate categorie. In questo caso il provvedimento che disapplica l’atto amministrativo generale, l’elenco dei Paesi non sicuri, deve farsi carico di provare la non sicurezza rispetto alla specifica persona per la quale si rifiuta la conferma della procedura. Su questo non può valere una opinione soggettiva del giudice, ma deve essere una decisione appoggiata su elementi concreti. Non c’è un notorio generale o perché i giornali dicono questo, o perché essendoci andato in vacanza non c’è sicurezza.

La risposta del ministro della Giustizia Nordio è stata “legifereremo”. Si parla di un decreto legge che chiarisca i Paesi sicuri: ci sono a suo giudizio gli estremi di necessità e urgenza?

Se c’è una oscurità normativa, non uno strumento di riforma del provvedimento per quello il governo può ricorrere ai gradi diversi di giudizio, l’urgenza ci può essere, c’è, per eliminare delle ambiguità delle norme e perché si possa provvedere per attività che si possono svolgere da domani, da dopodomani. Insomma non riguarda più i soggetti in questione, ma l’attività che può e deve essere svolta secondo la legge.

Il giudice a questo punto che rimedi ha, rispetto a una legge?

Può ritenere che sia in contrasto con il diritto comunitario e avere dubbi rispetto a questo e allora chiede alla corte di Giustizia dell’Unione europea e qual è l’interpretazione corretta delle norme comunitarie. Oppure può ritenere che la legge sia in contrasto con la Costituzione, che obbliga al rispetto del diritto comunitario, e sollevare una questione di legittimità costituzionale dinnanzi alla Corte Costituzionale.

Il presidente del Senato La Russa oggi su Repubblica chiede “rispetto per le prerogative della politica” e la necessità di chiarire “la zona grigia” in cui non si capisce il confine tra “le funzioni della giustizia e quelle della politica”. Qual è questo confine?

Il confine lo pone la legge. La Costituzione dice che la magistratura è indipendente, i giudici sono soggetti soltanto alla legge, non ad altri poteri dello Stato. Cioè non alla legge e alle mie opinioni personali.

Ci sono profili sanzionabili nella mail inviata dal magistrato di Magistratura democratica pubblicata – parzialmente – sui social dalla presidente del Consiglio?

Questo lo valuta e lo valuterà il procuratore generale della Cassazione o il ministro della Giustizia che ha il potere di promuovere l’azione disciplinare se ritiene che vi sia una lesione del riserbo dell’attività del giudice o se ritiene che il provvedimento adottato sia abnorme. Ma il giudizio, proprio per tutelare l’indipendenza di ciascun magistrato, è affidato, sull’azione disciplinare, alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura.

I fatti fanno emergere un inasprimento dei rapporti tra politica e magistratura?

Vorrei fare un appunto: cosa si intende per magistratura. Quello della magistratura viene detto un potere diffuso, subordinato ovviamente alla legge, ma che non ha posizione univoca. Ossia, non c’è una posizione della magistratura rappresentativa nel suo complesso, ma ciascun giudice e magistrato esercita una funzione che è potere dello Stato nel momento in cui è investito di quella questione. Certamente, dal punto di vista delle polemiche sarebbe opportuna una maggiore prudenza e non esprimersi con valutazioni politiche da parte dei giudici. Perché potranno essere imparziali rispetto alle diverse posizioni che ci sono nel mondo politico, ma devono anche essere ritenuti tali, apparire imparziali. Non possono essere partigiani per essere poi credibili. Occorre prudenza e autocontrollo.


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