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Responsabilità e cause del 7 ottobre. L’analisi di D’Anna

L’attacco di Hamas poteva essere scongiurato settimane prima e anzi trasformato in una trappola mortale per i terroristi. Perché non andò così? Quale groviglio di incongruenze accecò l’intelligence più agguerrita del mondo come hanno dimostrato gli ultimi clamorosi successi? Assieme al dolore, Israele non ha smesso di interrogarsi sulle cause dello strazio del 7 ottobre dello scorso anno. L’analisi di Gianfranco D’Anna

Se, come sostiene lo scrittore Nobel per la letteratura Gabriel García Márquez, tutti gli esseri umani hanno tre vite: pubblica, privata e segreta, i governi e gli apparati statali hanno una inconfessabile molteplicità esistenziale. Non si spiegano altrimenti gli anni luce di differenza fra uno dei più grandi successi dell’intelligence israeliana e contemporaneamente del più catastrofico e tragico fallimento degli stessi servizi segreti di Gerusalemme.

Il Mossad, il servizio segreto israeliano con funzioni di spionaggio e controspionaggio, e lo Shin Beth, che si occupa della sicurezza interna, sono stati protagonisti di eventi talmente contrastanti fra di loro da suscitare più di un interrogativo e un’infinità di polemiche.

Come è stato possibile che un Paese meritatamente famoso in tutto il mondo per la sua capacità difensiva e di spionaggio, non abbia colto i segnali e non sia riuscito a prevenire il disumano massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre. Uno scempio di donne e bambini che non è solo la più grave tragedia in termini di atrocità, orrore e morti dai tempi dell’Olocausto, ma è anche il più grande fallimento degli apparati politici, della sicurezza e dell’intelligence israeliani?

Quegli stessi apparati di sicurezza che in poche settimane hanno poi decapitato gli imprendibili vertici di Hamas e degli Hezbollah e stravolto la rete di comunicazioni delle milizie iraniane in Libano con la clamorosa e inedita operazione del sabotaggio a tappeto dei dispositivi dei cellulari e dei cerca persone, fatti esplodere in mano o in tasca a migliaia di terroristi. Operazioni da Guinnes dei primati della storia segreta dell’intelligence.

Ci sarà tempo dopo la guerra per interrogarsi, è il mantra ripetuto più e più volte dal governo di Gerusalemme. “Prima si vince la guerra, e solo dopo indagheremo”, è stata la linea adottata dal capo di Stato maggiore, Herzi Halevi, e pienamente condivisa dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ha sempre respinto gli appelli a creare una commissione d’inchiesta.

Nel frattempo, con il passare dei mesi, per colmare questa lacuna e placare gli interrogativi, le forze armate hanno avviato indagini interne volte a trarre conclusioni operative per i militari, senza esaminare e mettere in discussione le scelte della leadership politica. Ogni branca ha cominciato ad analizzare le proprie azioni, partendo in alcuni casi dal post-guerra a Gaza nel 2014 o dalle rivolte al confine con la Striscia nel marzo 2018. Primi rapporti sono stati finora pubblicati sulla gestione dei combattimenti nei kibbutz Be’eri e Nahal Oz. E di materiale da esaminare ce n’è: il mese dopo il massacro compiuto da Hamas erano uscite indiscrezioni sul fatto che una sottufficiale dell’intelligence militare, molto rispettata, identificata come V, avesse avvisato la sua catena di comando durante l’estate 2023 che Hamas stava pianificando un’incursione su larga scala. I suoi allarmi erano stati liquidati come “immaginari” e ignorati.

Insieme alle indagini interne dell’Israeli defence forces nel luglio di quest’anno su impulso di diversi gruppi che rappresentano i sopravvissuti al massacro di Hamas e dei familiari delle vittime è stata formata una commissione d’inchiesta civile indipendente, con due generali in pensione, un ex commissario di polizia e l’autore del codice etico ufficiale dell’Idf. Nonostante non abbia nessun potere legale e non possa convocare testimoni né avere accesso ai documenti governativi , la commissione civile intende svolgerà un’indagine completa e redigerà un rapporto che sarà la base di lavoro per la futura inchiesta ufficiale, ritenuta indispensabile.
Lo spettro degli effetti collaterali delle commissioni statali del passato agita Netanyahu. Sebbene ci vogliano anni per arrivare a un rapporto conclusivo, le conseguenze politiche sono spesso nefaste, anche se i vertici vengono scagionati.

Un esempio è la commissione Agranat sulla guerra dello Yom Kippur del 1973: l’allora ministro della Difesa, il mitico Moshe Dayan, e la premier Golda Meir furono tenuti al riparo, ma le critiche politiche e le proteste di piazza costrinsero la leader israeliana alle dimissioni poco dopo la pubblicazione del rapporto preliminare nell’aprile 1974.

Netanyahu finora non si è mai assunto la responsabilità per quanto accaduto, a differenza dei vertici della sicurezza e dell’intelligence. Anzi, nei primi giorni di guerra, nell’ottobre 2023, aveva suscitato dure polemiche un suo tweet – poi cancellato – in cui sembrava incolpare i soli militari per il fallimento del 7 ottobre, sottolineando di non essere mai stato avvisato “in nessuna circostanza e in nessun momento delle intenzioni di guerra di Hamas”. E ad agosto 2024, in un’intervista alla rivista Time, alla domanda se volesse scusarsi per quanto accaduto, si era limitato ad affermare di essere “profondamente dispiaciuto”. Per poi aggiungere che “ci sarà abbastanza tempo per chiarire gli eventi. Ma penso che farlo ora sia un errore. Siamo nel mezzo di una guerra, una guerra su sette fronti. Penso che dobbiamo concentrarci su una cosa: vincere”.

Diverso l’atteggiamento dimostrato da larga parte dell’apparato della sicurezza. Halevi come diversi altri – tra cui il capo dello Shin Bet, Ronan Bar, il capo del Comando meridionale, Yaron Finkelman, e il comandante della divisione di Gaza, Avi Rosenfeld, hanno subito riconosciuto le proprie responsabilità per il fallimento.

Lo scorso aprile il capo dell’intelligence militare, Aharon Haliva, si è dimesso: “Porto con me quel giorno nero da allora, giorno dopo giorno, notte dopo notte. Porterò con me per sempre l’orribile dolore della guerra”, ha scritto fra l’altro nella lettera di dimissioni. Già una settimana dopo il 7 ottobre, Haliva aveva riconosciuto il fallimento – “Non siamo stati all’altezza della nostra missione” – ma aveva detto che sarebbe rimasto fino alla fine del conflitto nella Striscia.

Lo scorso luglio è stata la volta del capo del Distretto Meridionale dello Shin Bet, “Aleph”. “Sento il dovere personale ed etico di chiedere scusa. Di chiedere scusa a tutti coloro i cui cari sono stati assassinati, i cui figli sono stati uccisi in battaglia, che sono stati rapiti, quelli che sono tornati a casa e quelli ancora prigionieri del nemico, e tutti coloro che sono sfollati nella loro stessa terra”, ha affermato nel discorso d’addio. “Il vostro perdono non attenuerà il fallimento, ma aiuterà a fare ammenda, almeno per me”. Il mese scorso è infine arrivato anche l’annuncio di Yossi Sariel, a capo dell’Unità 8200, il baluardo della cyber-intelligence, cruciale per la sicurezza nazionale.

Pur assumendosi “interamente” la responsabilità per il “fallimento operativo e di intelligence”, Sariel non ha nascosto la portata di quanto accaduto: “Negli anni e nei mesi precedenti, così come il 7 ottobre stesso, abbiamo tutti fallito come sistema politico e operativo nell’essere incapaci di collegare i puntini per vedere il quadro completo e prepararci ad affrontare la minaccia”.

Nonostante il macigno di responsabilità oggettive Benjamin Netanyahu è invece finora riuscito ad eludere ogni possibile conseguenza . Più di delle nove vite di un gatto, la capacità di sopravvivenza del premier sembra ormai al di là del bene e del male.

Oltre a battere tutti i record come primo ministro più giovane e più longevo di Israele, nonostante sia stato per mesi in bilico ad un anno di distanza dal “Black Shabbat”, i sondaggi lo danno anzi in rimonta a dimostrazione che politicamente non è affatto finito, a dispetto di Hamas, Hezbollah e dell’ Iran. O forse proprio grazie a loro.


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