La partnership sino-russa rafforza la propria presenza in Asia Orientale, con effetti significativi sugli equilibri regionali. Il Cnas analizza le implicazioni per gli Stati Uniti, evidenziando la necessità di un “Pivot to Asia” per fronteggiare l’influenza crescente di Pechino e Mosca
A due anni dalla sua stipula, la partnership tra la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese non sembra avere momenti di crisi. Nonostante vi siano una serie di questioni su cui Mosca e Pechino potrebbero assumere posizioni contrastanti, nel quadro generale i due Paesi hanno rafforzato il loro grado di collaborazione. E gli effetti di questo incremento si notano attraverso l’intera scacchiera internazionale, e specialmente nel teatro indo-pacifico. L’ultimo report del Center for a New American Security, firmato da Jacob Stokes, Evan Wright e Nathaniel Schochet, si concentra proprio su come la partnership sino-russa prenda forma nei confronti dei principali hotspot dell’Estremo Oriente.
Lo svolgimento di manovre aeronavali congiunte nei pressi del territorio giapponese, che spesso culminano in intrusioni nella zona di identificazione della difesa aerea di Tokyo, è finalizzato a fare pressione sul Paese insulare alleato di Washington, verso i quali sia Pechino che Mosca avanzano pretese territoriali. Anche sulla questione di Taiwan è stato registrato un rapprochement tra i due attori, con il Cremlino che sostiene Zongnanhai nei momenti di alta tensione nello Stretto di Formosa, in modo pedissequamente opposto ai tentativi di Taipei di rafforzare legami con altre democrazie del globo.
Per quanto riguarda la penisola coreana, la situazione è leggermente diversa. Entrambe le potenze si sono infatti sganciate dal processo di cooperazione multilaterale, favorendo il rafforzamento dei rapporti bilaterali con la Corea del Nord. Ma, seppur concertate, le due linee d’azione sono ben distinte: Mosca ha rafforzato in modo molto stretto i legami con Pyongyang, sial sul piano del supporto diplomatico che di quello militare (non solo scambio di armi e munizioni, adesso anche di unità militari operative), in parte per rispondere ai propri bisogni bellici e in parte per “rompere l’isolamento internazionale); anche Pechino mantiene una relazione strategica con Pyongyang, seppur mantenendola a un grado minore di quella perseguita da Mosca, con cui comunque si coordina per ridurre la pressione internazionale sulla Corea del Nord.
Il Mar Cinese meridionale rappresenta forse il contesto dove la partnership tra le due potenze revisioniste viene messa più alla prova. Storicamente la Russia ha infatti dei propri interessi in quel quadrante (si pensi ai progetti energetici intrapresi in collaborazione con il Vietnam), motivo per cui deve bilanciare la tutela di questi interessi con il mantenimento di buoni rapporti con Pechino, che sta accrescendo pesantemente la sua influenza nell’area.
Per gestire le recenti evoluzioni, gli autori del report offrono degli spunti ai policymakers degli Stati Uniti e dei loro alleati. A partire dal punto fondamentale dello strutturare politiche fondate sul fatto che la Russia non è più, come in passato, un “balancing actor” in Asia Orientale, differenza che stravolge il framework su cui si impostano gli altri suggerimenti. Alcuni più teorici, come l’identificazione e il monitoraggio di metriche per analizzare la partnership Cina-Russia, inclusi i fattori che li avvicinano e le aree di tensione, o ancora l’espandere le discussioni sulla deterrenza estesa e la pianificazione di eventuali contingencies tenendo in considerazione la collaborazione tra Cina e Russia. Altri più pratici, come l’approfondire i legami in ambito di sicurezza, diplomazia ed economia con paesi non allineati o poco allineati in Asia Orientale affinché abbiano alternative a Russia e Cina, rafforzando le coalizioni già esistenti.
Per fare ciò, è ovviamente necessario che più risorse vengano “dirottate” verso quest’area. E a poca distanza dalla pubblicazione del report un altro esponente del Cnas, Carlton Haelig, firma un Op-Ed su Breaking Defense dove rimarca la necessità di evitare l’overstretching degli Stati Uniti, trasformando l’impegno di Washington in teatri come l’Europa o il Medio Oriente (e non ritirandosi completamente da essi, o riducendo il proprio committment alla loro difesa) per facilitare la ripresa del “Pivot to Asia”. Lo stesso Haelig chiude il suo editoriale affermando che: “Un relativo ritiro dall’Europa e dal Medio Oriente è difficile da digerire e comporta i suoi rischi. Ma se la Cina è la principale minaccia per gli interessi americani, allora deve rimanere il principale obiettivo delle capacità americane, anche se ciò comporta l’accettazione di rischi altrove”.