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Il futuro dell’intelligence è il servizio unico? Il dibattito a Londra

Dalle dichiarazioni di Younger e Fleming, ex Sis e Gchq, è nato un paper sul “Rusi Journal” che approfondisce le sfide per le agenzie davanti alle nuove minacce, anche ibride, alla sicurezza nazionale. Parker-Vincent e Goodman osservano: la fusione comporterebbe notevoli sfide culturali. Come fare allora? Guardando a Usa e Australia

Il cosiddetto servizio unico è una delle ipotesi sul tavolo quando in Italia si discute di riforma dell’intelligence – e a febbraio il sottosegretario Alfredo Mantovano aveva parlato di un confronto pre-politico in corso. Tra le altre, c’è quella di un rafforzamento del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, affidando interamente cassa e risorse dell’intero comparto all’organismo della Presidenza del Consiglio (oggi diretto dall’ambasciatrice Elisabetta Belloni) che coordina l’attività dei due servizi, l’Aise (guidato dal prefetto Giovanni Caravelli) e l’Aisi (guidato da Bruno Valensise): così facendo, non si ridurrebbe il numero delle agenzie ma la piramide avrebbe una punta ben più accentuata, con il vertice messo nelle condizioni di evitare sovrapposizioni.

A imporlo sembrano essere le nuove sfide. In particolare, le minacce ibride portate da attori ostili, come Russia e Cina, che non distinguono tra pace e guerra, tra questioni interne e internazionali, e fanno della sicurezza il perno del regime. Non se ne parla soltanto in Italia. Anche nel Regno Unito il discorso è acceso. A renderlo pubblico sono stati, a inizio anno, Sir Alex Younger e Sir Jeremy Fleming, già a capo rispettivamente del Secret Intelligence Service (o MI6) e del Government Communications Headquarters. Il primo ha sostenuto che se il comparto intelligence del Regno Unito fosse creato da zero oggi, alla luce dell’attuale quadro delle minacce e dell’ambiente operativo odierno – le tre agenzie (SIS, estero; MI5, interno; GCHQ, signals intelligence) probabilmente non sarebbero organizzate nel modo in cui lo sono attualmente. Il secondo ha sostenuto che i servizi attuali dovrebbero essere organizzati “in base alle minacce che stanno contrastando e alla sicurezza delle popolazioni che servono”. E ancora: guardando i funzionari dei tre servizi oggi non sarebbe possibile distinguerli nello stesso modo in cui lo sarebbe stato 30 anni fa, quando lui e Younger furono reclutati.

In pratica, entrambi credono che oggi la collaborazione tra i servizi sia tale che la distinzione è diventata meno chiara e che, per esempio, i funzionari del SIS hanno spesso bisogno di conoscenze tecniche molto più approfondite di un tempo. Questi rimangono, però, specializzati nelle relazioni personali, mentre i funzionari del GCHQ sono in gran parte esperti di dati e sicurezza cibernetica. È anche e soprattutto una questione culturale, scrivono Celia Parker-Vincent, dottoranda al King’s College London, e dal professor Michael S Goodman, direttore del King’s Centre for the Study of Intelligence, in un recente paper, “Moving Towards a Secret Intelligence Joint Capability?”, pubblicato sul RUSI Journal. L’articolo sembra suggerire che le parole di Younger e Fleming siano state interpretate da molti come un’indicazione di servizio unico.

Secondo gli autori è vero che “i confini internazionali delle minacce alla sicurezza che dobbiamo affrontare sono molto sfumati e la natura stessa delle minacce è sfaccettata, richiedendo sempre più lavoro congiunto”. Basti pensare alla risposta dei servizi britannici, e occidentali in generale, al terrorismo, con una sempre maggiore collaborazione, anche con le forze di polizia. Ma “la collaborazione sempre più intensa tra le agenzie non elimina i loro ruoli distinti né segue le loro culture distinte”. Per questo, “il tentativo di unirle in una capacità congiunta comporterebbe notevoli sfide culturali”. Il cambiamento culturale, scrivono, “non può avvenire da un giorno all’altro”, “non può essere imposto ai dipendenti, ma piuttosto i leader delle organizzazioni devono promuovere un cambiamento graduale che si radica nel corso di anni, a volte decenni, quando il turnover del personale fa sì che la collaborazione diventi lo status quo”.

Anzi, “la cultura e l’identità organizzativa sono cose da celebrare, non da diluire”, sostengono Parker-Vincent e Goodman individuando in cultura organizzativa, il senso di appartenenza e sensazione di fare davvero la differenza nel mondo tre elementi in grado di ricompensare il personale alle prese, nella vita professionale così come in quella privata, con l’obbligo alla riservatezza.

C’è un elemento, che i due non citano, che rappresenterebbe una sfida per l’unificazione dei servizi: i costi operativi della fusione di due o più agenzie. Tradotto: quando si ha un’operazione in corso, e questo accade sempre, come si fa?

Quale soluzione, allora? Secondo i due autori il Regno Unito potrebbe trarre ispirazione da Stati Uniti e Australia, suoi alleati nelle rete Five Eyes. I primi hanno creato nel 2004 l’Ufficio del direttore dell’Intelligence nazionale. La seconda ha creato nel 2018 l’Ufficio dell’intelligence nazionale. In entrambi i casi si tratta di strutture di coordinamento all-source intelligence, chiamate a valorizzare le informazioni raccolte dai vari servizi con le loro specificità e farne una sintesi per aiutare il processo decisionale. Tanto che negli Stati Uniti è in corso un dibattito ben diverso da quello sul servizio unico: quello sulla creazione di una nuova agenzia, la diciannovesima (viene incluso nel conteggio anche l’Ufficio del direttore dell’Intelligenza nazionale), dedicata all’open source.

Un anno fa, Andrew Shearer, direttore dell’Ufficio dell’intelligenza nazionale, aveva spiegato la sua visione dell’intelligence: “squadre di gestione della missione” con ufficiali di diverse agenzie, alcune a lungo termine e altre a breve termine, che si riuniscono per affrontare particolari minacce. Un approccio orizzontale, per il quale è fondamentale abbattere – così come si sta tentando di fare in Francia e Stati Uniti – i cosiddetti silos, riunendo sotto lo stesso tetto (Mission Center) operativi e analisti che si occupano di questioni specifiche.

“Tali riforme comporteranno sempre dei rischi”, scrivono Parker-Vincent e Goodman, citando per esempio la possibilità che “una talpa sia in grado di vedere il lavoro di tutte le agenzie su un determinato obiettivo”. Ma non è forse il controspionaggio uno dei compiti degli stessi servizi?

(Foto di Killian Cartignies su Unsplash)


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