Dal “governo del merito” ci si sarebbe aspettati ben altro approccio. Ci si sarebbe aspettati, come suggeriva Zangrillo, l’abbattimento del tetto massimo dei 240mila euro accompagnato dall’introduzione di parametri utili a valutare la produttività, il valore generato, l’efficacia delle soluzioni individuate, la soddisfazione del cittadino. E invece…
In una recente intervista al Foglio, il ministro della Funzione pubblica Paolo Zangrillo ha sostenuto una tesi tanto coraggiosa, quanto fondata: “Se l’obiettivo è quello di reclutare i migliori, il ragionamento di dire addio al tetto dei salari è una questione che prima o poi andrà affrontata”. Parlava, Zangrillo, del tetto posto nel 2011 dal governo Monti, e poi esteso nel 2014 dal governo Renzi, alle retribuzioni pubbliche: 240mila euro lordi. Questa la massima retribuzione possibile per i top manager di Stato. Molti per chi ha qualifiche modeste, pochi per i più capaci. Troppo pochi per pensare di strapparli al settore privato incoraggiandoli ad assumere funzioni pubbliche.
C’era una logica, nelle parole del ministro, e la logica era quella meritocratica. Nulla di sorprendente per un governo che ha elevato a funzione ministeriale la parola merito e che ha fatto della meritocrazia il proprio tratto, retorico, distintivo.
È successo, però, esattamente il contrario di quanto auspicato da Paolo Zangrillo. Il governo Meloni, infatti, o per meglio dire il ministero dell’Economia, con la legge di bilancio appena licenziata dal Consiglio dei ministri ha abbassato a 160mila euro lordi il tetto, onnicomprensivo, delle indennità per i manager delle aziende pubbliche non quotate in borsa. Misura, peraltro, giustificata con argomentazioni non esattamente corrispondenti al vero. È stato infatti detto che 160mila euro è la retribuzione del presidente del Consiglio, retribuzione a cui l’attuale premier, come quasi tutti i suoi predecessori, somma però la ben più consistente indennità parlamentare comprensiva dell’ampia gamma di voci aggiuntive che la caratterizzano.
160mila euro lordi corrispondono ad uno stipendio netto di circa 6600 euro al mese. Stipendio in sé ragguardevole, ma che certo non servirà ad attrarre nei ranghi della pubblica amministrazione i manager più qualificati. È vero che il limite non riguarda le società pubbliche quotate, ma toccherà comunque i livelli apicali di importanti istituzioni come l’Inps o l’Agenzia delle entrate: difficile pensare che a guidarle andranno, in effetti, i più meritevoli.
Dal “governo del merito” ci si sarebbe aspettati ben altro approccio. Ci si sarebbe aspettati, come suggeriva Zangrillo, l’abbattimento del tetto massimo dei 240mila euro accompagnato dall’introduzione di parametri utili a valutare la produttività, il valore generato, l’efficacia delle soluzioni individuate, la soddisfazione del cittadino. Parametri cui condizionare l’erogazione di stipendi particolarmente alti e, magari, di particolari incentivi. Questo ci si sarebbe aspettati da un “governo del merito”, caratterizzato da un approccio realista e consapevole delle logiche del mercato. Abbiamo avuto, invece, un provvedimento dal chiaro retrogusto grillino.