Nel dibattito tra i candidati alla vicepresidenza, l’attacco iraniano a Israele oscura i temi interni. Nonostante l’impatto limitato sulle preferenze degli elettori, il confronto ha messo in evidenza l’incertezza delle risposte su un conflitto che potrebbe influenzare la politica estera della prossima amministrazione. L’analisi dell’ambasciatore Giovanni Castellaneta
Com’è andato lo scontro televisivo andato in scena nella notte italiana tra i due candidati alla vicepresidenza degli Stati Uniti? Da una parte il repubblicano J.D. Vance, l’impudente laureato di Yale poi convertitosi al trumpismo più spinto e aggressivo, dall’altra il democratico Tim Walz, smaliziato ex maestro di scuola e ora governatore del Minnesota. Inutile dire che il dibattito, conclusosi in sostanziale parità, sia stato quantomeno pesantemente influenzato – se non addirittura proprio messo in ombra – da quanto era da poco accaduto in Medio Oriente, con il massiccio attacco missilistico dell’Iran nei confronti di Israele.
Proprio da qui, infatti, i due sfidanti sono stati stimolati a cominciare. Nessuno dei due, tuttavia, sembra aver fornito risposte convincenti o che lascino presupporre una possibile strategia per risolvere una crisi che sembra avvitarsi sempre più su sé stessa in una spirale dai tratti estremamente preoccupanti. Vance ha ribadito il diritto di Israele a prendere in maniera autonoma le proprie scelte, mentre le risposte di Walz sono sembrate più vaghe e incerte. Indubbiamente, gli elettori di Donald Trump sono maggiormente fautori di una linea dura da parte di Tel Aviv, seppur nel quadro di un progressivo disimpegno internazionale che l’ex presidente aveva già tentato di mettere in atto nel corso del suo mandato. Al di là della performance dei due candidati, tuttavia, è evidente come la crisi mediorientale sarà la questione prioritaria (a questo punto forse ancora più della guerra in Ucraina) nei primi mesi della nuova legislatura, a prescindere se il nuovo inquilino della Casa Bianca sarà Trump o Kamala Harris. Gli effetti della situazione internazionale attuale, che è destinata a cambiare definitivamente l’ordine mondiale del secolo scorso, avranno certamente effetti più duraturi ben oltre la durata dei prossimi quattro anni di presidenza e con un candidato che, se vincitore, ha già dichiarato che non si ripresenterà nel 2028 quando avrà 83 anni. In questo caso Vance ha intanto mostrato ieri sera di poter essere un candidato presidenziale credibile per la prossima elezione tra quattro anni.
Tuttavia, le rispettive tifoserie erano naturalmente più interessate alle politiche economiche e sociali dei due candidati democratico e repubblicano. Su questi fronti, si può dire che gli sfidanti abbiano registrato un sostanziale pareggio, insistendo reciprocamente sulle rispettive agende e senza riservare particolari sorprese. Si può dire però che i toni di Vance, inaspettatamente cordiali e improntati alla correttezza, sembrano aver spiazzato Walz che in varie occasioni non è sembrato totalmente sicuro e padrone della situazione.
In sostanza, è difficile che il dibattito tra Vance e Walz possa spostare consensi in maniera significativa. Quasi sicuramente non ci saranno ulteriori scontri televisivi prima del voto del 5 novembre, vista l’opposizione di Trump a incontrare nuovamente Harris. L’esito delle elezioni sarà determinato dunque da altri fattori, come l’andamento dell’economia nelle prossime settimane e l’abilità dei candidati e dei loro rispettivi staff nel condurre la campagna elettorale ed utilizzare al meglio la percezione dei fatti rispetto alla loro realtà. La situazione internazionale non sarà paradossalmente un fattore chiave, anche se la tensione in Medio Oriente potrebbe salire ulteriormente aprendo a scenari di guerra gravissimi. Mentre gli Stati Uniti saranno impegnati in un passaggio di consegne potenzialmente problematico (se dovesse vincere Trump), in Israele il primo ministro Benjamin Netanyahu sembra approfittare di questa situazione per perseguire un piano ambizioso con mille incognite anche cruente, di pacificazione radicale della regione e di rafforzamento dello stato di Israele in confini più ampi e circondato da Paesi non più ostili. La scommessa è estremamente rischiosa e sarà il prossimo presidente americano il broker principale.