Non sarà probabilmente tra le prime priorità del nuovo presidente, sia esso Donald Trump o Kamala Harris, tuttavia l’Africa chiama e difficilmente il nuovo inquilino della Casa Bianca potrà tirarsi indietro. Ecco uno schema di differenze e necessità strategiche comuni
Informazioni che non è possibile confermare ufficialmente indicano Saddam Haftar, probabile erede del business miliziano famigliare che ruota attorno al signore della guerra di Bengasi, suo padre Khalifa Haftar, sia negli Stati Uniti. Saddam ha rapporti con le strutture di Washington, che potrebbero essere usati per favorire la sua sua ascesa, in quanto considerato quello più gestibile dei figli. La questione, anche se l’informazione fosse unicamente un rumor creato per qualche interesse, ci è utile per ricordare come gli Stati Uniti stiano giocando le loro carte sul dossier libico, che è il più delicato del Nordafrica e in generale uno di quelli più sensibili dell’intero continente.
Ossia, allargando notevolmente il discorso, l’informazione ci ricorda che nonostante l’Africa non sia al centro delle discussioni elettorali americane, le elezioni presidenziali Usa2024 avranno un impatto significativo sul continente, perché la politica estera americana ha un impatto praticamente ovunque. La competizione globale con Cina e Russia (che tra le varie cose è il principale partner e dante causa degli Haftar) rende l’Africa un terreno strategico che gli Stati Uniti non possono ignorare. Soprattutto adesso che interessi nuovi, dalle terre rare all’emancipazione di intere collettività che chiedono alle loro leadership di rivendicare un proprio posto nel mondo, segnano le dinamiche del continente, l’Africa non può più essere trascurata dalle amministrazioni statunitensi, non può più essere considerata un problema di sicurezza e trattata sempre e solo in quanto tale.
Questo approccio reattivo ha infatti permesso a Cina e Paesi del Golfo di consolidare la loro influenza, evidenziando la necessità di una strategia invece proattiva da parte di Washington — che Joe Biden ha voluto raccontare con l’organizzazione di un grande vertice ospitando alla Casa Bianca la stragrande maggioranza dei capi di Stato o di governo africani. Era il dicembre 2022, da lì arrivava la promessa per una visita del presidente americano nel continente che poi, per ragioni anche di agenda e imprevisti, non c’è mai stata. Non sarà probabilmente uno dei primi appuntamenti del nuovo presidente, sia esso Donald Trump o Kamala Harris, tuttavia l’Africa chiama e difficilmente il nuovo inquilino della Casa Bianca potrà tirarsi indietro.
Trump e Harris: due visioni contrapposte per l’Africa
Come su tutto il resto, anche sul dossier africano Trump e Harris hanno elementi di fondo comuni, che rappresentano la direttrice strategica di lunghissima gittata, oscurati e a volte obliterati dalla differenza di tono e approccio, necessaria anche per sfamare le masse totalmente polarizzate della collettività statunitense. Un esempio interessante è la percezione di Trump in Nigeria. Nosmot Gbadamosi sul suo “Africa Brief” ricorda un pezzo del Guardian in cui si osservava che molti nigeriani vedono il repubblicano come una figura che rappresenta il tipo di politico forte che percepiscono come assente nel loro Paese.
Trump viene descritto come una sorta di “avatar” di ciò che manca alla Nigeria (e forse non solo): un leader che dice ciò che pensa e agisce in modo deciso. Questa popolarità si collega al fascino che i leader autoritari e diretti esercitano su vari contesti africani. Harris, anche perché donna in un continente in cui il gender gap fatica a essere riconosciuto come problema, non gode di tale lettura. E inoltre Trump beneficia di una posizione riconoscibile proprio per la pubblicità avuta dalla sua passata esperienza amministrativa; differentemente Harris ha avuto sempre un ruolo secondario, sebbene lei abbia visitato il continente da vice presidente e a quanto pare abbia anche già impostato un “Africa team” per il futuro — segno di un rinvigorimento della strategia?
Secondo Ismail Osman, ex vicedirettore dell’Agenzia Nazionale di Intelligence e Sicurezza della Somalia, al di là di alcune percezioni popolari, la presidenza Trump solleva preoccupazioni tra gli esperti di sicurezza africani. In un op-ed per Modern Diplomacy il somalo scrive che un secondo mandato di Trump favorirebbe la Cina, poiché gli Stati Uniti probabilmente darebbero priorità alle operazioni di sicurezza piuttosto che agli interventi di sviluppo. Osman teme che, concentrandosi solo sulla sicurezza, Trump potrebbe creare un vuoto nello sviluppo economico, lasciando alla Cina un margine maggiore di influenza.
Anche per tale ragione, l’approccio di Kamala Harris, puntando su sviluppo e cooperazione, potrebbe essere migliore. Durante il suo tour in Africa nel 2023, Harris ha visitato nazioni democratiche e promosso iniziative economiche come il sostegno all’industria creativa continentale e l’accordo per una zona di libero scambio continentale africana. “Se diventa presidente, Harris dovrà affrontare questioni che si sono rivelate difficili sia per i politici statunitensi che per i leader africani, che vanno dalla promozione della crescita economica, alla protezione dei diritti umani, alla lotta alla corruzione e oltre”, scrive Benjamin Mossberg, vice direttore dell’Africa Center dell’Atlantic Council. “Per affrontare questi problemi in modo efficace — analizza — avrà bisogno di una strategia rinvigorita che rafforzi e modernizzi gli sforzi precedenti. Harris non può mancare il bersaglio sull’Africa, dopo tutto, Russia e Cina stanno osservando da vicino e aspettando di sfruttare eventuali opportunità mancate”.
La sicurezza come fondamento comune
Nonostante le differenze e le preoccupazioni come quelle di Osman, la sicurezza rimane comunque un elemento critico e una necessità. In oltre venti nazioni africane, la situazione securitaria è peggiorata nell’ultimo decennio, secondo uno studio della Mo Ibrahim Foundation. La recrudescenza degli insurrezionalismi e il regresso democratico hanno attirato anche l’interesse di attori come Russia e Turchia (perfino Ungheria), pronti a offrire supporto militare in cambio di risorse. Una presidenza Trump potrebbe enfatizzare un approccio più distaccato (o diretto ma emergenziale), mentre Harris potrebbe cercare di costruire alleanze multilaterali per affrontare le sfide di sicurezza del continente.
La necessità di ricomporre un quadro di sicurezza e un’architettura anche di deterrenza è d’altronde alla base delle possibilità di sviluppo nel continente. Far viaggiare tali dimensioni in modo contemporaneo è la sfida delle più innovative policy africane. La situazione nel Corno d’Africa è un esempio di tale nexus, diventata un’area di crescente tensione geopolitica anche per via degli interessi di sviluppo dei Paesi della regione. Un allineamento tra Egitto, Eritrea e Somalia riguardo alla questione aperta del Somaliland rischia di aprire un conflitto con l’Etiopia, destabilizzando ancora il corridoio indo-mediterraneo. Gbadamosi ricorda che ex diplomatici dell’amministrazione Trump, come Tibor Nagy e Peter Pham, sostengano un riconoscimento statunitense della statualità del Somaliland che minaccia di infiammare le tensioni e rompere un decennio di lavorio per mantenere gli equilibri. Gli Stati Uniti, indipendentemente dal presidente, dovranno investire in una diplomazia più attenta per mantenere l’integrità e la stabilità della regione, considerata al momento l’hotspot più sensibile dall’Unione Africana per i suoi effetti a cascata.
Cosa vuole l’Africa dal prossimo presidente Usa
Le aspettative dell’Africa rispetto alla prossima amministrazione statunitense sono numerose e variegate, riflettendo le sfide cruciali che il continente deve affrontare. Entrambi i candidati dovranno lavorare sul confronto commerciale con la Cina, probabilmente incrementando politiche protezionistiche, con un impatto negativo anche sulle economie africane. La migrazione di forza lavoro qualificata — come medici, ingegneri e avvocati — da Paesi come Nigeria, Ghana e Zimbabwe verso gli Stati Uniti e l’Europa è un’altra delle questioni da affrontare perché viene percepita come una grave “fuga di cervelli”. Paesi come Kenya ed Egitto, invece, cercano di esportare talenti per sostenere le proprie riserve valutarie. Una nuova presidenza Trump, orientata su politiche di controllo e deportazione, potrebbe ostacolare questi obiettivi economici africani. Al contrario, Harris ha manifestato il suo sostegno a visti H-1B per lavoratori qualificati, indicando un potenziale approccio più aperto alla migrazione economica dall’Africa.
C’è poi la questione energetica, cruciale per molti Paesi africani, i quali cercano di espandere l’accesso all’elettricità sfruttando fonti di carbonio. Mentre Trump potrebbe supportare questa direzione, allineandosi con alcuni leader africani, Harris probabilmente tenderebbe a privilegiare fonti di energia pulita e progetti climatici (ma va ricordato che grandi progetti come quello idroelettrico etiope collegato alla GERD stanno però causando di altre tensioni nel Corno). Tuttavia, la transizione verde rischia di lasciare scoperta una parte del fabbisogno energetico africano. Altro tema enorme è la sicurezza sanitaria: qui a preoccupare numerosi leader africani è l’eventuale disimpegno statunitense nel programma Pepfar (President’s Emergency Plan for Aids Relief), già minacciato da per due volte da Trump durante il suo mandato, e su cui Harris potrebbe invece garantire maggiore sostegno, pur non essendoci certezze dato che anche l’amministrazione Obama aveva ridotto i finanziamenti.
Una competizione strategica per il futuro dell’Africa
Come nel caso del riconoscimento del Sahara Occidentale da parte di Trump nel 2020 (tema riacceso da Parigi in questi giorni), un solo tweet può modificare gli equilibri — tale è il peso statunitense e la precarietà degli stessi. Per questo le elezioni Usa2024 determineranno il futuro delle dinamiche in Africa, ma in un contesto in cui Cina e Russia giocano un ruolo sempre più centrale tali dinamiche toccheranno sempre più gli interessi statunitensi.
Sebbene Trump e Harris abbiano visioni contrastanti, emergono fondamenti comuni che guideranno la politica estera americana nel continente: la sicurezza, l’approvvigionamento energetico, la gestione sanitaria. Si tratta di richieste del continente che per l’appunto si incrociano all’interesse statunitense. Per l’Italia, che ha lanciato la sua strategia per l’Africa con il cosiddetto “Piano Mattei”, quanto accade si incrocia con ambizioni e necessità dirette, perché gli Usa sono un moltiplicatore per la proiezione di Roma (come dimostrano casi come quello del Corridoio di Lobito).