La questione-Libano non può essere capita separandola dalla altre, ma tutto il Libano andrebbe coinvolto nella determinazione del suo futuro, magari con una nuova classe dirigente, non con i vecchi esponenti di una casta che sembra proprio non rappresenti più nessuno; cristiani, sunniti e sciiti allo stesso identico modo. La riflessione di Cristiano
Nel politichese libanese ci sono sempre stati due vocaboli noti a tutti: Baadba, cioè il palazzo del presidente della Repubblica, e Gran Serraglio, cioè il palazzo del presidenza del Consiglio.
Da circa un anno però ci siamo abituati a un nuovo vocabolo: Ain el-Tiné, cioè la residenza del Presidente della Camera; è qui che da tempo hanno luogo le conferenze stampa dei dignitari stranieri in visita di Stato.
Anche il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, ha parlato alla stampa ad Air el-Tiné.
È solo l’ultimo esempio di un fatto da chiarire e va detto che anche l’inviato speciale francese, Le Drian, ha sempre incontrato Nabih Berri, come altri, finché è andato a Beirut. Come mai ormai va avanti così da molto tempo?
Da quando è cominciata la shuttle diplomacy per conto della Casa Bianca dell’inviato speciale Amos Hochstein, le conferenze stampa ad Ain el-Tiné sono diventate una costante.
Eppure in modo eclatante e a tutti evidente, per tutto questo tempo, cioè per tutto il 2024, il Libano non ha mai riunito il suo Parlamento, che da due anni dovrebbe eleggere il nuovo Capo dello Stato.
E questo non è avvenuto perché il presidente del Parlamento, Nabih Berri, da Ain el-Tiné, non lo ha mai convocato a tal fine.
Dunque il presidente del Parlamento non ha consentito che il Parlamento, secondo il dettato costituzionale, votasse dapprima a maggioranza qualificata, poi a maggioranza semplice, il nuovo presidente.
Questa elezione avrebbe consentito di sostituire l’attuale governo, in carica solo il disbrigo degli affari correnti, con un governo nella pienezza dei suoi poteri.
Così il presidente del Parlamento Nabih Berri ha trovato il modo per essere l’unico interlocutore istituzionale in carica.
Il sistema confessionale libanese prevede che il Capo dello Stato sia cristiano, il premier sunnita, il capo del Parlamento sciita.
Dunque la voce dei cristiani è stata cancellata, quella dei sunniti ridotta all’apparenza di un premier senza poteri, e tutto è stato concentrato nelle mani del fedele alleato dell’Iran e di Hezbollah, Nabih Berri, novantenne da 30 anni alla guida della sola Camera libanese.
A nome di chi tratterà il signor Nabih Berri? A nome del Libano o a nome di altri?
Tutto questo è ancora più rilevante se si considera che il Libano intero è stato coinvolto nella guerra in corso, scaturita però da una scelta unilaterale di Hezbollah, partito in armi ma anche partito libanese, che però può imporre una sua politica nazionale di difesa a un intero Paese privo di un governo e di una Presidenza della Repubblica, i solo costituzionalmente intitolati a definirla.
Così sotto lo slogan fuorviante “non eleggiamo il presidente sotto le bombe”, il presidente della Camera ha di fatto chiuso il Parlamento da quando la guerra è diventata piena nel settembre di quest’anno ed ha assunto su di sé sia le funzioni di Presidente della Repubblica che di Capo di Governo reale, visto che chi si reca in visita a Beirut per negoziati ufficiali rende solo una visita di cortesia al presidente del Consiglio in carica per gli affari correnti, Najib Miqati, magari dopo aver incontrato la stampa ad Ain el-Tiné.
I piani dunque si accavallano: c’è quello costituzionale, nel quale un presidente del Parlamento svolge funzioni chiaramente non sue e impedisce al Parlamento di assolvere al dovere più urgente, dare al Paese un suo Presidente.
Poi c’è il piano confessionale, diciamo quello della famosa “Costituzione materiale”. Cristiani e sunniti, componenti essenziali del Libano reale, sono esautorati, tutto è nelle mani della componente sciita, per il tramite del suo esponente Nabih Berri.
Chi a Beirut saprà di cosa discute il signor Nabih Berri nei suoi colloqui che riguardano e impegnano tutto il Paese?
Questo porta all’argomento sul tappeto: l’applicazione della risoluzione 1701, che dovrebbe essere il cuore del cessate il fuoco futuro.
Questa risoluzione prevede che non vi siano miliziani armati al di sotto del fiume Litani, che scorre a trenta chilometri dal confine con Israele.
Se venisse applicata così ad Hezbollah, e ad altri, consentendo solo all’esercito e all’Unifil di essere in armi in quello spazio geografico (ormai distrutto), Hezbollah rimarrebbe in armi sopra quel fiume? Eppure un’altra risoluzione dell’ONU, la 1559, prevede che Hezbollah, come tutti gli altri partiti libanesi, debba disarmare.
Cosa si intende dunque con l’idea di applicare la risoluzione 1701? Che Hezbollah e altri devono rinunciare alle armi e che comunque nessun miliziano può circolare armato sotto il Litani, o che Hezbollah può rimanere con il suo arsenale sopra il Litani? Se così fosse è difficile pensare che la piena sovranità libanese possa essere garantita rispetto alle violazioni israeliane.
E cosa ci farebbe Hezbollah con le armi sopra questo fiume Litani, cioè lontano dal confine israeliano ma vicino a Beirut? Si può escludere che le volgerebbe verso i suoi avversari libanesi per assicurare a chi lo arma, cioè all’Iran, un controllo miliziano sul Libano? Diventerebbe un Paese normale quello per il quale sta trattando solo Nabih Berri e nessun altro esponente libanese, se si eccettua qualche piccola notizia accennata al premier Miqati?
La questione-Libano ovviamente non può essere capita separandola dalla altre, ma tutto il Libano andrebbe coinvolto nella determinazione del suo futuro, magari con una nuova classe dirigente, non con i vecchi esponenti di una casta che sembra proprio non rappresenti più nessuno; cristiani, sunniti e sciiti allo stesso identico modo.