Pechino ne ha sempre fatto un vessillo, ma anche uno strumento utile a combattere il dollaro. Eppure un uso massiccio della moneta virtuale rischia di erodere e non poco le commissioni che garantiscono alle banche cinesi la sopravvivenza
Li si potrebbero chiamare effetti collaterali indesiderati. E forse, alla fine, è proprio così. Lo yuan digitale è da sempre una delle crociate della Cina contro l’Occidente. Una moneta virtuale in grado non solo di aggirare le sanzioni, ma anche di aumentare il volume di scambi tra le diverse istituzioni finanziarie dentro e fuori il Dragone. L’Europa e gli Stati Uniti si sono nel tempo adeguati, soprattutto il Vecchio continente. L’euro digitale, il cui promotore principale è stato l’allora membro del comitato esecutivo della Bce, Fabio Panetta, oggi governatore di Bankitalia, rappresenta una delle migliori risposte alla sfida cinese, ma anche alle criptovalute.
Ma c’è un problema. Gli analisti di Standard&Poor’s si sono accorti che le transazioni in yuan digitale hanno dei costi di commissione più bassi. E dal momento che le percentuali su ogni movimento rappresentano una delle voci di entrata più importanti per gli istituti, un uso massiccio della moneta virtuale in Cina potrebbe impattare sui ricavi delle stesse banche. Secondo l’agenzia di rating americana, insomma, lo yuan formato digitale altro non è che un’arma a doppio taglio.
Perché sì, la possibilità di effettuare transazioni in moneta non fisica aumenterà anche i flussi di denaro in entrata e in uscita, ma lo farà anche a costi minori, riducendo i guadagni. Discorso che vale soprattutto per i pagamenti retail, cioè legati all’economia di tutti i giorni, alla vita quotidiana di oltre un miliardo di persone. Il danno, per le banche cinesi, in termini di mancate commissioni è potenzialmente enorme.
Anche perché la velocità con cui la valuta digitale ha raggiunto fasce sempre più estese di popolazione è stupefacente, se si considera che i test sono partiti soltanto ad aprile 2020 e ad ottobre dello stesso anno c’erano appena 75 mila utenti attivi che avevano accesso ai servizi. Oggi si osserva una evidente crescita esponenziale della diffusione dei wallet (i portafogli digitali analoghi ad un conto corrente bancario), attivati da una quota sempre più ampia di popolazione. Il che amplia il problema per le banche.
Una tegola che arriva in un momento non troppo felice per gli istituti della Repubblica Popolare, che già scontano la presenza nei loro bilanci di enormi quantità di titoli di Stato dai rendimenti fin troppo ballerini. Gli istituti, da quando Pechino ha lanciato il suo piano da mille miliardi di bond, lo scorso maggio, hanno fatto man bassa di debito sovrano. Ma forse a Pechino non avevano previsto la scarsa tenuta dei rendimenti, nonostante gli sforzi della Pboc, la banca centrale cinese, nel sostenere gli acquisti di titoli, nel tentativo di stabilizzarne il prezzo.
Il risultato è una probabile svalutazione dei portafogli bancari, con conseguente generazione di perdite. Negli Stati Uniti, tale svalutazione, ha portato al crack della Silicon Valley Bank. Un canovaccio che ora potrebbe ripetersi in Cina. La prova, come sempre, è nei numeri. Il rendimento delle obbligazioni sovrane a 10 anni più attivamente negoziate è sceso infatti al 2,065%, un livello mai visto da quando sono diventati disponibili i dati ufficiali, nel 2002.