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Così la Nato si muove tra clima, sicurezza e disinformazione. Parla Palestini

“Ci è stato detto di tutto, in alcune regioni in effetti la narrativa è che il climate change è un’invenzione dell’Occidente per aumentare lo sfruttamento”, spiega Palestini. Anche questo è sicurezza climatica, e tutto è parte della resilienza con cui la Nato affronta le sue attività

Claudio Palestini è capo della Management and Coordination Unit del programma Science for Peace and Security e co-chair del C-Uas Working Group della Nato. Il suo team lavora dal quartier generale dell’alleanza nell’ambito della Innovation, Hybrid and Cyber (Ihc) Division, minacce che in gergo tecnico vengono definite “below-article-5” (l’Articolo 5 del trattato Nato è quello che regola la difesa collettiva in caso che uno dei membri alleati subisca un aggressione convenzionale). Sono situazioni asimmetriche, in definitiva uno di quegli ambiti in cui i concetti di civile e militare si mescolano.

La scienza come strumento di pace e sicurezza è uno dei vettori che la Nato sta portando avanti da anni, tema ricordato nel recente workshop co-organizzato con Fondazione Med-Or e Ingv (“Climate Change and Natural Hazards in the Euro-Mediterranean Region: Security Impacts and Crisis Management”), e in cui rientra l’interconnessione tra cambiamento climatico e sicurezza, di cui Palestini parla con Formiche.net.

“Climate Change è una tematica che dal 2021 è entrata tra le priorità della Nato, che ha sviluppato un piano di azione riconoscendo come il cambiamento climatico abbia un impatto sulla sicurezza internazionale:la Nato si occupa di clima in linea con i suoi obiettivi strategici, consapevole che il cambiamento climatico sta aggravando condizioni di sicurezza estreme, creando un problema di strategia geopolitica”, spiega Palestini.

C’è una componente tecnica, che tiene conto per esempio delle riduzioni delle emissioni: le operazioni militari nel mondo contribuiscono al 6% delle emissioni globali annuali, e dunque la Nato si è mentalmente e materialmente inclinata verso attività più sostenibili, con un piano di riduzione del 40% entro il 2030 per successivamente portare le emissioni a zero entro il 2050. Poi c’è la necessità pratica: l’Alleanza ogni anno pubblica un “impact assessment” con casi di studio specifici, e Palestini ricorda come ormai regolarmente si osserva che per la Nato Mission in Iraq aumentino i giorni in cui le operazioni devono essere fermate perché sia per gli uomini che per gli assetti è impossibile operare.

“Si tratta di un problema tecnico e pratico di sicurezza, per questo il mio team lavora su una serie di programmi che hanno l’obiettivo di trasmettere tutta la parte policy della divisione in progetti pratici, anche attraverso partnership tra Paesi Nato e partner, con il fine di creare science diplomacy attraverso il rapporto con istituti accademici e enti di ricerca per promuovere un avanzamento tecnologico cooperativo”, spiega il funzionario Nato.

Ci sono già diverse situazioni in cui l’Sps ha creato prodotti in grado di poter essere utilizzati, ed è questa la ragione per cui quando la Nato si confronta con Paesi non membri il programma ottiene sempre un posto di rilievo. Soprattutto nei rapporti con il mondo del Fronte Sud, dove le questioni che riguardano la “climate security” sono una reale priorità e progetti pensati all’interno del quadro dell’Alleanza diventano anche iniziative per sviluppo tecnologico.

Si parla di progetti su batterie, conversione di CO2 per l’industria, riqualificazione di territori agricoli dalla contaminazione successiva alle operazioni militari, studi sul trasporto dell’energia al fronte delle operazioni (che serve sia per aumentare l’efficacia operativa oltre che l’efficienza climatica).

Attorno al cambiamento climatico si è creata molta disinformazione, sia di carattere anti-scientifico (il negazionismo sul cambiamento climatico), sia usata in alcuni contesti in termini anti-occidentali (ossia diffondendo una narrazione in cui si accusa l’Occidente di produrre le emissioni che producono le alterazioni del clima, in una sorta di meta-sfruttamento spinto per esempio nella propaganda russa nel Sahel). Voi ne subite le conseguenze? “Ci sono narrative che cercano di disincentivare la transizione energetica”, risponde Palestini.

Tutto rientra nel grande topic “resilienza”: “Anche in caso di operazioni, dobbiamo affidarci a questioni civili come la food o la energy securty, ma qui rientra anche la disinformazione e il dibattito pubblico: dobbiamo imparare a essere resilienti anche al tipo di attacchi nell’information warfare”.


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