Ci sono condizioni in cui il settore privato può agire a beneficio della collettività anche più di quanto possa il settore pubblico. È necessario comprendere tale circostanza e definire una linea che consenta di evitare storture e che al contempo permetta però la nascita di piccole e grandi economie. L’opinione di Stefano Monti
È chiaro che la manovra 2025 ha lasciato un po’ di amaro in bocca a tutti coloro che, in ambito culturale, hanno riscontrato il taglio al ministero della Cultura. Il famoso taglio del 5% a tutte le dotazioni attribuite ai singoli ministeri è stato analizzato con puntualità dalla stampa di settore, che ha evidenziato come la maggior parte dei decrementi sia stata riservata alla missione di Tutela del Patrimonio Culturale, con tagli minori per lo spettacolo dal vivo, alla tutela dei beni archeologici, fino a coinvolgere, in buona sostanza, tutti i principali programmi del dicastero.
Puntuale la reazione degli operatori, con argomentazioni che spaziano dalla rilevanza della cultura sotto il profilo sociale, fino a dimensioni più prettamente operative che invece si interrogano sul rapporto tra le attività richieste e le risorse disponibili. Argomentazioni corrette, che tuttavia vengono frequentemente poste a fondamento di posizioni per propria natura vaghe o faziose, come può essere la richiesta di un generico incremento dei fondi destinati alla cultura, o come invece possano essere quelle riflessioni che si risolvono in richieste altissime, il cui soddisfacimento richiederebbe una necessaria riduzione di dotazioni a settori importanti almeno quanto la cultura.
Negli ultimi anni sono state le molteplici “battaglie” condotte per ottenere specifici risultati in ambito di attribuzioni di risorse finanziarie, che tuttavia parevano costruite più per fini di consenso che per fornire al dicastero indicazioni tecniche o di rappresentatività di una parte dell’elettorato. Pur essendo sempre auspicabile l’assegnazione di sempre maggiori risorse ad un comparto che pur presentando delle criticità strutturali, rappresenta in ogni caso un fattore distintivo del nostro Paese nel mondo, c’è però da segnalare che, al netto delle critiche sull’efficacia delle azioni di questo o quel governo, l’Italia ha una serie di “conti” cui prestare attenzione, e che quindi dobbiamo iniziare ad accettare anche la possibilità di politiche di riduzione delle dotazioni pubbliche come un elemento politico che, a determinate condizioni, può risultare realmente percorribile.
La prima di tali condizioni è ovviamente, che il taglio alla spesa pubblica deve essere condotto secondo criteri di spending review che riducano al minimo le potenziali riduzioni in termini di qualità e quantità dei servizi erogati. Condizione che è possibile se si agisce in modo opportuno sugli aspetti organizzativi, con un approccio di controllo di gestione rigoroso esteso a tutto il settore pubblico, andando a ridurre quelle azioni che comportano un costo più elevato rispetto al valore pubblico generato. La seconda di tali condizioni è che, in caso di riduzione delle dotazioni disponibili, il settore pubblico sia disposto a sostenere il comparto privato in una logica di sviluppo economico e sociale nazionale, non solo su quelle partite in cui c’è bassa marginalità, ma anche su quelle operazioni a più alto rendimento.
Condizione che è tutt’altro che frequente nella storia democratica degli ultimi decenni, soprattutto in ambito culturale, comparto in cui il settore pubblico è fortemente coinvolto direttamente o attraverso le proprie partecipate. Bisogna ricordarsi, infatti, che al di là dell’alto tasso di indebitamento del nostro Paese, condizione che con allarmante ciclicità passa dall’essere tematica da prima pagina ad argomento da inserito di approfondimento, quello che maggiormente pesa non è tanto il debito, ma la mancanza di crescita, che si aggira intorno a tassi che sono tutto sommato ridicoli se paragonati a quelli che sarebbe possibile ottenere.
In questo senso, favorire lo sviluppo di economie locali legate alla cultura potrebbe avere degli effetti importanti in termini sistemici, riducendo da un lato la necessità di dotazione finanziaria pubblica, e incrementando dall’altro lo sviluppo economico. Una condizione che andrebbe analizzata secondo un approccio rigoroso ed estremamente tecnico, andando a valutare, conto per conto, missione per missione, attività per attività, quali azioni attualmente in capo al settore pubblico potrebbero essere più efficienti, e quindi con minor costi, e più efficaci, con maggiori ricavi e ritorni culturali e sociali, se svolte dai privati.
Molte mostre pubbliche sono carenti sia sul livello scientifico che di pubblico. Molti film con il sostegno pubblico e il tax credit sono effettivamente frutto di una dinamica più legata agli aspetti finanziari che culturali. Molti luoghi della cultura posseduti dal settore pubblico (dai Comuni allo Stato), potrebbero essere molto più coinvolgenti, molto meglio valorizzati, molto più partecipati. Molte iniziative di carattere culturale interamente sostenute dal settore pubblico potrebbero essere sicuramente evitate, e , in alcuni casi, rimodulate. Molte campagne di comunicazione potrebbero essere meglio congegnate. Molte organizzazioni culturali potrebbero essere snellite. Molti incarichi potrebbero forse essere evitati.
La linea comune ad ogni orientamento politico è infatti quella di mantenere un preciso controllo sulle attività culturali, condizione che potrebbe essere anche coerente con le logiche di buon governo, a patto che l’alternarsi di maggioranze non si traduca poi in una moltiplicazione dei ruoli di responsabilità.
I recenti scandali o presunti tali che stanno coinvolgendo il ministero della Cultura confermano un clima organizzativo in cui la dimensione relazionale pare essere più rilevante di quella produttiva e culturale. Il tutto, mentre il numero di pratiche che arrivano sulle scrivanie delle soprintendenze continuano ad aumentare, e con esso i tempi di conclusione degli iter.
È forse giunto il momento di ricordare che il ruolo dell’intervento pubblico nella cultura è quello di garantire un supporto alla pluralità di espressioni culturali e sociali, agendo in quei contesti in cui il privato non garantirebbe per propria natura un servizio pubblico, o stimolando la domanda di cultura per favorire la possibilità di tutti i cittadini di poter accedere a forme espressive e culturali eterogenee ed in grado di garantire una formazione dell’individuo e della collettività il meno possibile condizionata da impedimenti di tipo economico o di altra natura.
Fuori da questo perimetro, però, il settore pubblico dovrebbe lasciar spazio ai soggetti privati, monitorando e indirizzando eventualmente l’attività al raggiugimento di specifici obiettivi, e promuovendo una struttura organizzativa che premi i dipendenti e non li sottoponga a condizioni lavorative di precariato di lungo periodo, e che premi tuttavia anche le organizzazioni che si assumono rischi imprenditoriali. Dobbiamo prendere atto che ci sono condizioni in cui il settore privato può agire a beneficio della collettività anche più di quanto possa il settore pubblico.
È necessario comprendere tale circostanza e definire una linea che consenta di evitare storture e favoritismi, e che al contempo permetta però la nascita di piccole e grandi economie. Perché delle due, l’una: o la nostra Pubblica amministrazione riesce a gestire, proteggere, tutelare e valorizzare al meglio il nostro patrimonio culturale, o è giusto che qualcun altro possa farlo al suo posto. Qualsiasi altra strada porta all’ingerenza o al declino.