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L’Europa ha bisogno di un Defence production act. Lo studio di Ecfr

L’Unione europea si trova a fare i conti con un periodo di crisi senza precedenti nella sua storia. Le sfide e le criticità del Vecchio continente devono essere intercettate per tempo, pena l’inesorabile perdita di rilevanza sul piano internazionale. Il nuovo studio dello European council on foreign relations sottolinea la necessità di adeguare un’organizzazione nata in tempi di pace alle esigenze di un tempo di guerra

“L’Ue è giustamente orgogliosa della sua missione storica di progetto di pace. E per temperamento, i cittadini europei tendono a preferire la diplomazia alla guerra. Ma la diplomazia può essere credibile solo se l’Europa è forte e veloce nel mettere in campo il suo potere militare, economico, industriale e finanziario. Questo è necessario per prevenire i conflitti, sostenere gli Alleati che tengono le guerre lontane dal territorio dell’Unione e quindi mantenere l’Europa al sicuro”.

Nonostante il moltiplicarsi di crisi securitarie che circondano il Vecchio continente, l’Europa non è ancora riuscita a scendere a patti con l’imprescindibile relazione che vede la diplomazia legata a doppio filo con la Difesa. A oltre un anno dall’esplosione del conflitto in Medio oriente, e a quasi tre dall’invasione russa dell’Ucraina, l’Unione europea continua ad arrancare sul piano militare, pregiudicando sensibilmente le proprie potenzialità diplomatiche e quelle dei singoli Stati. Nel nuovo policy brief pubblicato dall’European council on foreign relations (Ecfr) dal titolo “Better firefighting: Readying Europe for an age between war and peace” gli autori, Laurence Boone e Nicu Popescu, esaminano lo stato delle istituzioni, delle industrie e delle iniziative comunitarie afferenti al mondo della Difesa. Il report, che affronta la questione dell’incidenza dell’azione dell’Ue sotto diversi aspetti, da quello produttivo a quello energetico, passando per quelli economici e istituzionali, costituisce un utile riassunto sul complesso tema della difesa europea e delinea una serie di aree chiave sulle quali è diventato imperativo soffermarsi.

Tutti tranquilli mentre la casa brucia

“L’Unione europea è circondata da guerre. A est, si trova ad affrontare il più grande conflitto su larga scala sul suolo europeo dal 1945. A sud-est, il Levante rimane sull’orlo di una grande conflagrazione. A sud, guerre e colpi di stato devastano il Sahel e minacciano il ventre dell’Europa. Nel frattempo, l’Unione è essa stessa oggetto di una serie sempre più intensa di brutali aggressioni ibride, oltre che dei più ampi shock di un mondo interdipendente, che in parte assomigliano alle guerre per le esigenze che pongono all’industria e alle infrastrutture. Eppure i suoi mezzi per farvi fronte rimangono allarmantemente inadeguati”. 

Il primo punto su cui si sofferma lo studio è l’allarmante lentezza con cui gli Stati europei stanno reagendo allo scoppio della guerra d’Ucraina e delle crisi innescate o succedutesi alla stessa. In quella che, per portata e magnitudo, è una fase accostabile alla pandemia, l’Europa, che pur in quella occasione ha dimostrato di essere in grado di fare di più e in modo migliore (‘to make more and better’), sembra attendere che, come fu per il Covid, tutto si risolva da sé. Nonostante i proclami relativi alle implicazioni di lungo corso della guerra, le azioni concrete messe in campo dal Vecchio continente risultano tremendamente sottodimensionate rispetto alle reali necessità. Dal timido rilancio delle linee di produzione al mancato finanziamento di infrastrutture energetiche strategiche, gli europei non sembrano credere davvero che sia arrivato il momento di considerare le guerre come una possibilità reale e la Difesa come uno strumento necessario. Oltre alla scarsa incidenza dell’azione politica, il documento segnala come, in quello che è di fatto un wartime, istituzioni e organismi comunitari continuino ad applicare procedure, tempistiche e mentalità da tempo di pace. Questo, specialmente se comparato con il cambio di passo registrato in altre regioni del mondo, contribuisce ad aggravare il giudizio sulla risposta europea alle sfide del presente.

Un provvedimento legislativo per rilanciare la produzione

Come è ben noto, oltre a non disporre di una reale politica estera unitaria e di una sua struttura militare, l’Unione è in grave difficoltà sul piano della produzione. Decenni di pace e di, forse eccessiva, dipendenza dall’alleato statunitense hanno fortemente indebolito l’industria europea della Difesa, particolarmente sul piano della produzione di munizioni. La proposta centrale che emerge dal report, anche su ispirazione del Rapporto Draghi, è quella di uno European defence production act (Edpa). Similmente a come fu negli Stati Uniti nel 1950, quando la Guerra di Corea mise a dura prova la capacità produttiva degli Usa, l’Europa dovrebbe adottare un atto legislativo che le conceda di mettere in cantiere una seria e poderosa iniziativa di reindustrializzazione nel settore militare. Non solo, questo atto non dovrebbe fungere unicamente da ulteriore finanziamento (comunque necessario, vista l’inadeguatezza delle spese attuali), ma soprattutto da strumento di coordinamento per ricondurre all’ordine il caotico ed eterogeneo panorama delle iniziative europee nel settore. Anni di provvedimenti ad hoc su singoli progetti e di reticenze nazionali in merito alla gestione dei programmi hanno infatti reso estremamente frastagliato il panorama di chi fa cosa sul piano della policy industriale e militare dell’Ue. L’Edpa costituirebbe dunque uno strumento per coordinare efficacemente e in modo verticistico un settore che, semplicemente, non può più permettersi di ragionare solo come attore nel mercato ma che anzi dovrebbe diventare un asset strategico continentale. Uno strumento simile renderebbe anche più rilevante la nuova carica di commissario alla Difesa dell’Ue, la cui istituzione è stata messa in dubbio proprio in virtù degli scarsi finanziamenti e della frammentarietà del settore.

I punti chiave per l’Europa in tempo di guerre

Complessivamente, lo studio di Ecfr traccia cinque aree tematiche che, sia prese singolarmente sia come interconnesse, risulteranno cruciali per ridefinire il ruolo dell’Europa nel mondo di oggi (sempre che ne abbia la volontà). Innanzitutto c’è la questione delle minacce ibride: già da prima del febbraio 2022 (e da allora più che mai) l’Europa deve fronteggiare una serie di minacce non convenzionali, come la disinformazione, la crisi energetica e gli stravolgimenti portati dall’avvento delle nuove tecnologie che necessitano di strategie innovative per essere affrontate. Collegato a ciò vi sono poi i punti sull’Edpa e sul necessario snellimento delle procedure decisionali. Crisi come quelle che stiamo fronteggiando richiedono risposte rapide e decise, che mal si conciliano con il pluristratificato e complesso meccanismo decisionale europeo. L’iniziativa in questa direzione dovrebbe riguardare una semplificazione binaria (comunitaria e nazionale) volta a permettere all’Unione di reagire tempestivamente a ogni tipo di crisi. Viene poi il già citato discorso sulle infrastrutture energetiche, il cui potenziamento è necessario per ridurre l’esposizione nei confronti di attori che, come fa la Russia, potrebbero usare la leva energetica per ricattare il continente. Da ultimo, il bisogno di aumentare le collaborazioni con altre realtà sovranazionali come la Nato e la Bei (Banca europea degli investimenti) per poter meglio affrontare tutte le sfide sopra elencate. 

Le sfide che l’Europa si trova ad affrontare alla vigilia del voto negli Stati Uniti (tutt’altro che secondario, anche con riguardo a questi temi) sono molte e complesse. Il report di Ecfr, così come il Rapporto Draghi e diverse altre eminenti pubblicazioni segnalano la necessità di fare qualcosa, qualsiasi cosa, purché si faccia. La domanda resta sempre la medesima, l’Europa (e i suoi membri) saranno in grado di rispondere alla chiamata della Storia?


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