Lindner ha lavorato contro l’Ue: ha fatto sì che “debito comune” fosse una bestemmia ma ha imposto le modifiche al Patto di stabilità e crescita che oggi rappresentano una vera palla al piede per qualsiasi ipotesi di sviluppo. L’opinione di Gianfranco Polillo
Meglio tardi che mai verrebbe da dire, di fronte alle dimissioni imposte/volute di Christian Lindner, il presidente del Partito liberale democratico tedesco, nonché ministro delle Finanze della Repubblica tedesca. Già nell’incertezza di definire la natura di quelle dimissioni (se volute o imposte) c’è tutta l’ambiguità del personaggio. In apparenza un campione dell’etica della convinzione, nel retrobottega il semplice calcolo del dare e dell’avere in quella complessa situazione politica ch’era e che è la situazione tedesca. Con un governo che già dal nome – semaforo – non riusciva a nascondere le profonde divisioni interne e la difficoltà nel trovare quel minimo di sintesi che è necessaria per la dovuta convivenza.
Si spiegano così le parole, particolarmente dure, con cui il cancelliere Olaf Scholz ha accompagnato o diretto quegli avvenimenti: “Troppo spesso Lindner”, questo il suo giudizio, “ha agito seguendo gli interessi di una sua personale fetta di elettorato. Troppo spesso non ha lavorato per il bene di questo governo”.
Si trattasse solo di questo. No: Lindner, nella difesa corporativa del proprio piccolo spazio elettorale, sempre più insidiato dalla presenza minaccioso di Alternative für Deutschland, il partito di destra che pescava nel suo stesso elettorato, ha lavorato contro l’Unione europea. Non solo ha fatto sì che l’espressione “debito comune” equivalesse a una bestemmia, ma ha imposto alla stessa Commissione europea quelle modifiche al Patto di stabilità e crescita che oggi rappresentano una vera palla al piede per qualsiasi ipotesi di sviluppo.
Si deve, infatti, a lui l’esaltazione del “rigorismo”, la dichiarazione di sfiducia esplicita nei confronti di tutti quei Paesi che non facevano parte del gruppo ristretto dei “frugali”, l’idea che la distinzione tra il “debito buono” e quello “cattivo” fosse solo una diabolica costruzione volta a gabbare la buona fede del popolo tedesco. Giuste critiche, a condizione di non dimenticare che è stato Scholz nominarlo ministro delle Finanze. A collocarlo nel posto peggiore in cui poteva essere messo il leader di un piccolo partito, il cui interesse preminente era la sopravvivenza. E deinde philosophari.
Lindner non sembra aver tradito quelle premesse. All’origine del nuovo dissidio, dopo quelli passati, la stesura di un nuovo programma – ma sarebbe meglio chiamarlo un “manifesto” – ch’era l’esatta negazione di quel che rimaneva dello spirito della coalizione di governo. Secondo la stampa tedesca, sarebbe stato scritto per favorire l’incontro con l’Unione cristiano-democratica, guidata da Friedrich Merz, che ne aveva assunto la guida da poco più di due anni. Anch’egli più che un liberale, un mercatista: un rappresentante delle tradizionali ali conservatrici dell’establishment e pro-business di quel partito. In grado di apprezzare un proclama “lacrime e sangue”, come quello elaborato dal suo possibile alleato: abolizione dei contributi di solidarietà, riduzione delle sovvenzioni alle fasce più deboli, rinvio della transizione ecologica, maggiore flessibilità aziendale nei contratti di lavoro, meno burocrazia. Soprattutto meno Stato.
Un progetto credibile? A noi sembra fuori tempo massimo, visto quanto si intravede all’orizzonte, dove si staglia l’ombra di Donald Trump. Per comprendere la debolezza politica europea, sul fronte esposto dei rapporti commerciali, non è necessario ricorrere alle statistiche del Congressional Budget Office americano. Secondo l’ultima previsione della Commissione europea, che risale alla primavera di quest’anno, nel solo 2023 l’Eurozona ha accumulato un surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti pari a 410,8 miliardi di euro. La parte del leone è andata alla Germania (284,5 miliardi, pari a circa il 70 per cento del totale e al 6,9 del suo prodotto interno lordo) e ai Paesi Bassi – non a caso i massimi esponenti del club dei “frugali” – (104,3 miliardi di euro, il 25% del totale e il 10,1 per cento del proprio prodotto interno lordo). Dati che sono figli di quelle politiche.
In compenso il deficit americano è stato pari a 768,8 miliardi di dollari, mentre il surplus della Cina non ha superato l’1,4 per cento del proprio prodotto interno lordo, per un importo pari a poco più di 263 miliardi di dollari. Quindi, considerando il cambio, poco più di 240 miliardi di euro. Se non vi fossero le relazioni atlantiche a giocare un ruolo, non sarebbe difficile individuare chi è il principale competitor degli Stati Uniti. Il che, pur incrociando le dita e invocando la clemenza della corte, non lascia troppi margini alla speranza per il prossimo futuro.
Ed ecco allora il peso della scarsa lungimiranza dei mercantilisti, ai quali Lindner si onora di appartenere. Hanno contribuito a una politica economica letteralmente suicida, nel medio e lungo periodo. Hanno, come piccole formiche, accumulato dollari, yen, sterline e renminbi, per poi investirli all’estero, comprimendo la domanda interna e ora rischiano di trovarsi con un pugno di mosche in mano. Impotenti nei confronti di un alleato-concorrente, come gli Stati Uniti, che invece quelle risorse hanno ottenuto in prestito per sviluppare le forze produttive al punto tale da mantenere una supremazia tecnologica quasi assoluta. Non in tutti campi, ovviamente. Ma almeno in quelli che contano e che più si prestano agli sviluppi del futuro.
La cosa più grave che costoro, questa logica l’hanno imposta anche agli altri Paesi europei. Alcuni come la Francia, che presenta un deficit quasi cronico della sua bilancia dei pagamenti, se n’è infischiata. Altri, come la Spagna si è buttata, negli anni, in una gigantesca operazione di catching up che le ha consentito di recuperare il ritardo. Nel 2007 il deficit delle sue partite correnti era pari al 9,7% del prodotto interno lordo, nel 2023 il surplus è stato, invece, del 2,7. L’Italia, dal canto suo, invece ha subito in silenzio, senza replicare ai continui attacchi che le provenivano da esponenti di quella cultura politica, facendo quel che doveva fare. Nel corso di 10 anni tutti i debiti con l’estero – come già abbiamo avuto modo di scrivere – pari a 530 miliardi di euro, sono stati saldati e a giugno di quest’anno, com’ha detto il presidente Sergio Mattarella, si sono trasformati in un credito pari a 225 miliardi.
Di fronte alle dimissioni di Lindner – volute o subite – quindi non ci commuoveremo. La sua eredità – le modifiche introdotte nelle regole del Patto di stabilità – peserà sulla situazione italiana. Ci ha costretti a indossare un abito troppo stretto che, con ogni probabilità, produrrà una crescita minore e un aumento del surplus delle partite correnti, dovute all’impossibilità da parte della società italiana di poter utilizzare tutte le risorse disponibili. E questo fino a quando avvenimenti, purtroppo abbastanza prevedibili, non ci obbligheranno a cambiare registro, con i costi aggiuntivi che il passaggio implicherà. Quelle tardive dimissioni non ci ricompenseranno, ma almeno contribuiranno a far crescere la nostra autostima.