L’Italia è un partner importante della Nato, e può presentarsi non solo con il diritto di parola, ma anche con la voglia di influire sulle decisioni. L’ambasciatore Alessandro Minuto-Rizzo, già vice segretario generale della Nato, analizza l’incontro tra il nuovo segretario generale della Nato, Mark Rutte, e la premier Giorgia Meloni
L’incontro a Roma tra il nuovo segretario generale della Nato, Mark Rutte, appena insediato, e la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha avuto al centro la riaffermazione del supporto all’Ucraina, l’evoluzione del pilastro europeo dell’Alleanza, le spese militari e il rafforzamento della base industriale dei membri della Nato. Proprio su quest’ultimo punto si è soffermato Rutte, il quale incontrerà in giornata i rappresentanti dell’industria della difesa italiana, sottolineando come la Nato debba spingere l’acceleratore sulla produzione di sistemi e munizionamento per essere all’altezza delle sfide odierne e plaudendo la decisione italiana di investire oltre otto miliardi nell’acquisto di nuovi carri armati. Ne abbiamo parlato con l’ambasciatore Alessandro Minuto-Rizzo, già vice segretario generale della Nato.
Ambasciatore, qual è stato a suo avviso il significato di questa visita?
L’incontro si inserisce nel solco delle visite di rito con i capi di governo dei Paesi alleati. Dovremmo valutarlo, dunque, come il primo che il nuovo segretario generale fa con il governo della Repubblica italiana. Da parte italiana, queste occasioni sono importanti per ribadire come il nostro Paese è, ed è stato, un membro importante dell’Alleanza lungo tutta la sua esistenza. L’Italia è uno dei dodici Paesi fondatori, fondamentale nel corso della Guerra fredda e anche dopo, avendo partecipato a tutte le operazioni Nato, non solo quelle nel Mediterraneo – area sulla quale spesso si sofferma il dibattito. I nostri militari sono presenti a rotazione nel pattugliamento dei cieli baltici, sul fianco est dalla Romania alla Bulgaria, in Afghanistan hanno partecipato controllando la regione di Herat (grande come mezza Italia), e sono presenti in Kosovo dove presidiano un quarto del Paese. Tutto questo deve farci prendere la consapevolezza che l’Italia può presentarsi non solo con il diritto di parola, ma anche la voglia di influire sulle decisioni.
Come crede cambierà il rapporto con questo nuovo segretario generale? Che differenze vede rispetto al precedente?
L’attenzione dell’ex-segretario generale Jens Stoltenberg è stata – per un fatto culturale – istintivamente rivolta verso i vicini del proprio Paese natale, la Norvegia. Si è, dunque, concentrato verso la Scandinavia, l’Ucraina e la Russia (con cui Oslo condivide un tratto di confine). Tra l’altro, Stoltenberg proveniva da un Paese non Ue, al contrario dei Paesi Bassi di Rutte che dell’Unione europea sono stati tra i Paesi fondatori, come l’Italia. L’Aia ha poi una storia molto ricca di relazioni internazionali. È un Paese che, anche da un punto di vista storico, che però prosegue nell’epoca contemporanea, ha una visione globale. Io stesso sono stato vice segretario generale della Nato all’epoca del precedente segretario olandese, Jaap de Hoop Scheffer, e conosco bene l’orientamento dei Paesi Bassi, con cui credo ci si possa trovare molto in sintonia dal punto di vista culturale.
La presidente Meloni ha riportato l’attenzione sul tema del fianco sud e del Mediterraneo. Pensa che la nuova Nato di Rutte sarà più attenta a questo tema?
Per rispondere dobbiamo ricordare che la Nato si è estesa molto negli ultimi tempi. Dai dodici membri iniziali siamo arrivati a 32, in una organizzazione che funziona per consenso. Nella Nato non si vota. Dalla dissoluzione dell’Urss fino all’invasione dell’Ucraina, l’Alleanza si è allargata soprattutto verso l’est e verso il nord, spostando come conseguenza naturale il baricentro verso questi punti cardinali. Un fatto che di per sé non è un problema, anzi è inevitabile, non possiamo cambiare la geografia. Quello che è importante sottolineare, come fatto dalla presidente del Consiglio, è che la Nato deve avere uno sguardo a trecentosessanta gradi, come più volte ribadito dall’Alleanza stessa. Regioni come i Balcani, il Golfo, il Mediterraneo, il Sahel e il Medio Oriente sono altrettanto importanti. Se le cose vengono lasciare al loro decorso naturale – seppure in buona fede – è normale che i Paesi si concentrino di più verso le aree geografiche considerate più vicine. La stessa Italia è naturale che si occupi, e si sia sempre occupata, di temi come il Mediterraneo e il Medio Oriente (io stesso ero incaricato direttamente di questi temi). Ma l’Italia, come dicevamo, ha sempre partecipato a missioni dal Baltico al fianco est. Quello che è importante ricordare è, dunque, che al di là degli organigrammi l’Alleanza non può essere solo scandinava o est-europea, c’è anche il sud. Persino Stoltenberg, verso la fine del proprio mandato, aveva toccato questo tema. Forse avrebbe dovuto fare di più e ha sempre mostrato poca sensibilità verso Medio Oriente e Nord Africa.
Rutte ha fatto i complimenti all’Italia per gli impegni nel rafforzare la propria Difesa, e ha ricordato l’importanza di potenziare la base industriale del comparto in Europa. Il segretario generale, però, ha anche sottolineato l’importanza di raggiungere il 2% del Pil da destinare alle Forze armate. Il nostro Paese, però, continua a faticare. Ritiene sarà un problema per la nostra posizione all’interno dell’Alleanza?
Che l’Italia, sul 2% del Pil da destinare alla Difesa, sia indietro è inequivocabile. Bisogna sottolineare che abbiamo dei limiti alla spesa nel nostro bilancio, e non credo che raggiungeremo l’obiettivo entro la scadenza che ci siamo dati. Tuttavia il progresso c’è, con un aumento constante che muove il Paese verso quella direzione. Tuttavia, spese a parte, resta il fatto che l’Italia è sempre stata presente in tutte le operazioni Nato a livelli altissimi. Un segnale dell’impegno del Paese nella Nato, al di là dei fondi. Inoltre, l’Alleanza Atlantica ha una priorità, maggiore che in passato, verso le alte tecnologie e la dimensione industriale. Il suo futuro è quello della sicurezza internazionale dipenderà anche da questo aspetto.
Questa notte si voterà per il prossimo Presidente degli Stati Uniti. Come cambierà la Nato dopo il voto?
Ancora non sappiamo chi vincerà le elezioni negli Usa. C’è da dire che Italia e Paesi Bassi sono Paesi atlantisti da sempre, e su questo non ci sono divergenze di tipo culturale. Questo approccio continuerà al di là del nuovo inquilino della Casa bianca. Per quanto riguarda l’altro lato dell’Atlantico, qualunque sondaggio ha sempre trovato maggioranza di oltre il 70% dei cittadini favorevoli alla Nato e al ruolo degli Usa nell’Alleanza. Non è, quindi, un tema controverso o partitico, trovando l’appoggio bipartisan al Patto. Se vincerà la candidata democratica, Kamala Harris, ci sarà inevitabilmente una continuità politica.
E se vince Trump?
Di Donald Trump, invece, sappiamo che nel suo precedente mandato ha avuto una posizione molto critica verso gli europei, accusati di spassarsela, protetti dai soldi e dalle Forze armate americane. Se sarà eletto il repubblicano, dunque, questo tema potrebbe ripresentarsi. Al netto di questo, però, non credo che esista davvero un pericolo di allontanamento Usa dalla Nato, né Trump lo ha mai detto. Si è limitato a criticare il Vecchio continente intimandogli di aderire agli impegni. Forse, qualora venisse eletto Trump, gli europei potrebbero finalmente prendere il coraggio a due mani e far sentire un po’ di più la propria voce all’interno dell’Alleanza, non in contrapposizione, ma in termini propositivi. È possibile che Trump spingerà per indicare la Cina quale prossima priorità, anche se resta ancora da capire se come nemico o semplice competitor. Sicuramente ci sarà un movimento della Nato verso l’Indo-Pacifico, la cui natura dovrà essere chiarita una volta per tutte. Al di là della partecipazione alle ministeriali dei delegati di Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Corea del sud. Per il resto è difficile fare previsioni.