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Parthenope, il mondo invisibile dei sentimenti

Nel personaggio di Sorrentino, la bellezza è perdizione. Seduce uomini, donne e persino religiosi, nutrendosi di costante fragilità. Una bellezza mai consolatoria, portatrice di solitudini e tormenti che, al di là dell’apparenza, accompagnano Parthenope fino alla fine. La recensione di Elvira Frojo

La bellezza ci salverà? Nella regione che, nel 2023, ha conquistato il podio per presenze turistiche, nella città meta privilegiata dei millennial attraversata da allarme per la criminalità minorile con tre morti solo nell’ultimo periodo, nella città dei miracoli, irrompe “Parthenope”. Donna, mito, sentimenti, luogo.

Napoli metafora delle contraddizioni della vita e dell’amore. Teatro di libertà e sofferenza.

È l’ultimo film di Paolo Sorrentino che fa discutere, con entusiasmo o perplessità, pubblico, mondo social e anche religioso. Registrando record di incassi.

Tra finzione e realtà è, forse, il viaggio più difficile e intimo per il regista di origine napoletana e romano d’adozione, già premio Oscar con “La grande bellezza”.

Bisognerebbe rivedere più volte il film per percepirne il senso. Forse, sempre diverso per ciascuno. Per non farsi abbagliare troppo dalle accecanti immagini di una straordinaria fotografia, per non farsi irretire da alcune scene scabrose e grottesche. Per guardare “oltre” e, poi, chiedersi quale possa essere davvero il messaggio del film. Oltre la trama e il contesto storico.

Come non condividere le considerazioni di Antonio Polito sul Corriere del Mezzogiorno che prende spunto dall’articolo di Goffredo Fofi sulla pellicola, definita lontana dalla storia di Napoli degli anni Settanta, quella della vitalità delle arti e il peso sociale e culturale, tra contestazione studentesca, nascente femminismo e lotta operaia. “Non tutti i ‘chiattilli’ (figli di papà) erano come in Parthenope”, sottolinea Polito. “Provenienti dalla piccola borghesia e anch’essi non impegnati nel preparare la rivoluzione. Eppure presenti e anche autori di quel rinnovamento”.

Da napoletana trapiantata a Roma, ricordo quegli anni della gioventù e il film di Sorrentino mi suggerisce alcune riflessioni.

Nella città dove “c’è sempre posto per tutto”, la Napoli dai tanti volti celebrata dal regista, fatta di luci e ombre, dagli splendori architettonici, il calore del sole e il profumo dei luoghi, ai vicoli e sotterranei, immagini, simboli e suggestioni irrompono e commuovono chi l’ha vissuta.

Un gioco di specchi, a volte deformante, proietta visioni, inganni e disinganni, solitudini e sofferenze. Compagni di viaggio dei protagonisti del film come del mondo reale, nella trama della vita, spesso, inaspettata.

In un viaggio quasi “epico” tra passioni e paradossi, Sorrentino sceglie la sensibilità femminile per poter descrivere un mondo invisibile proprio dove tutto sembra raccontato dall’evidenza. La bellissima Parthenope è donna dispensatrice di doni ma anche causa di ogni male. Come Pandora, incarna simbolicamente la complessità delle contraddizioni e i limiti dell’umanità.

Destinata a essere una dea, nasce, nel 1950, nelle acque del Golfo di Napoli, a Palazzo Donn’Anna a Mergellina. Riceve in dono una sontuosa carrozza proveniente da Versailles e le viene attribuito il nome della sirena mitologica considerata fondatrice della città.

Parthenope, nel mito dell’Odissea, consapevole di non poter vivere l’amore con Ulisse, lascia andare il proprio corpo in mare. Portata dalle onde sull’isolotto di Megaride, si dissolve prendendo le forme della città di Napoli. Il suo capo è la collina di Capodimonte, la coda la collina di Posillipo.

Parthenope divina e smarrita, nella finzione scenica. Ammalia con la sua bellezza, mai volgare, e intenerisce. “Triste e frivola”, “determinata e svogliata”. “Ponte” tra l’amore, l’infelicità e la morte, perduta tra imprevedibili sentieri nella bellezza di Napoli. In una ricerca di libertà che è orizzonte irraggiungibile per una conquista di amore sempre inappagata. “L’amore è provare a sopravvivere”, afferma Parthenope.

Nel personaggio di Sorrentino, la bellezza è perdizione. Seduce uomini, donne e persino religiosi, nutrendosi di costante fragilità. Una bellezza mai consolatoria, portatrice di solitudini e tormenti che, al di là dell’apparenza, accompagnano Parthenope fino alla fine.

In una rappresentazione che vede la donna comunque tradita nelle aspettative e negli ideali da un uomo troppo spregiudicato o troppo fragile, predatore di una sessualità, spesso, lontana dai sentimenti. Ma ugualmente smarrito nei propri stereotipi.

La sofferenza non risparmia nessuno dei protagonisti. Come nella vita reale. Nel paradiso dove libertà significa grandezza e sogno ma anche violenza e infelicità, c’è un’umanità prigioniera di se stessa e “la certezza della realtà ci fa sbiadire”.

“È impossibile essere felici nel posto più bello del mondo”, afferma il fratello di Parthenope che morirà suicida a causa dell’amore impossibile per lei provato. Dopo la sua morte, tutto è silenzio, tristezza e nostalgia, nella sontuosa casa nativa che sembra spegnersi, ricoprendosi di bianchi teli.

Amore e violenza, passato e presente si intrecciano, così, attraendosi nella realtà come nella finzione. In un tempo che passa impietosamente e in cui troppo presto l’innocenza e la gioventù lasciano spazio alla vecchiaia, la corsa della vita annulla, per sempre, sogno, desiderio e amore.

E mentre il passato sfuma, rimpianto e memoria radicate nell’anima smascherano illusioni e narrazioni. Una dolorosa nostalgia che può diventare rifiuto o riconciliazione con i luoghi e le persone che abbiamo amato e amiamo.

Nella città dove la bellezza, mentre conquista in maniera dirompente lascia nudi davanti al mare, è la Napoli (la vita) invisibile che si può vedere quando non si è più impegnati a viverla “soltanto”, come spiega il docente di antropologia alla studentessa Parthenope. “Quando manca tutto il resto”. La bellezza, la giovinezza, l’amore.

Una strada senza uscita? Sembra ricordarlo il testo canoro di Riccardo Cocciante “Era già tutto previsto” che incede a ritmo cadenzato durante il film. “Non siamo più felici” e “solo che però adesso io.. vorrei morire”, è lo strappo della fine.

Nel mito, dal vaso aperto da Pandora escono tutte le calamità ma, nel fondo, rimane Elpis, la speranza.

“L’amore per provare a sopravvivere è stato un fallimento. Forse non è così”, sono le malinconiche parole di Parthenope nel finale della pellicola. Interrogativo senza risposta.

E solo una donna poteva chiederselo nella sua profonda intensità.


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