Arabia Saudita ed Emirati Arabi, motori del Golfo Persico, attendono Trump sperando che non conceda eccessivi via libera a Netanyahu col timore che questi possano alterare gli equilibri trovati con l’Iran
Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti mantengono un impegno costante per la distensione con l’Iran, mentre osservano con interesse ma anche con prudenza il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. La speranza è che il nuovo mandato del repubblicano possa porre fine a un anno di conflitti in Medio Oriente, anche se l’imprevedibilità trumpiana potrebbe paradossalmente riaccendere le tensioni. Per leader come il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, o il presidente emiratino, Mohammed bin Zayed,Trump ha rappresentato un buon alleato durante il primo mandato, apprezzato per la linea dura verso Teheran e per il suo stile pragmatico, che aveva offerto al Golfo un’alternativa dopo anni di frustrazioni con le politiche statunitensi – frustrazione in parte tornata con l’amministrazione Biden. Tuttavia, con il tempo, i due colossi del Golfo hanno adottato un approccio diverso, cercando un dialogo – fluidificato dall’intesa per la normalizzazione siglata a Pechino – e dubitando dell’impegno degli Stati Uniti nella loro sicurezza. In un’immagine: in questi giorni i capi delle forze armate di Iran e Arabia Saudita si sono incontrati per parlare di sicurezza regionale.
Il senso di urgenza è cresciuto dopo l’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023, che ha scatenato nuove tensioni nella regione e ha acuito il rischio di uno scontro tra Stati Uniti e Iran. Di fronte a questa instabilità, sia Riad che Abu Dhabi hanno scelto di mantenere una posizione di cauta neutralità. Ma mentre i leader del Golfo, storicamente favorevoli a una presidenza repubblicana, accolgono con favore il ritorno di Trump, sperando che il suo spirito da negoziatore porti stabilità, temono anche che Trump possa dare maggiori libertà al premier israeliano Benjamin Netanyahu, alimentando così tensioni con l’Iran e rischiando un conflitto che potrebbe colpire anche i paesi del Golfo.
Il desiderio di Riad di mantenere una “pace fredda” con Teheran è stato ribadito con la recente accoglienza del principe bin Salman agli alti funzionari iraniani durante la conferenza arabo-musulmana dei giorni scorsi, durante la quale oltre cinquanta leader hanno concordato una linea retorica molto severe contro Israele. Negli stessi giorni, il consigliere presidenziale emiratino Anwar Gargash, figura potentissima nel stemma di potere attorno a bin Zayed, ha auspicato, durante una conferenza ad Abu Dhabi, che la nuova amministrazione Trump persegua una strategia “complessiva” piuttosto che reazioni frammentarie, suggerendo un cambio di passo rispetto alle politiche passate. Questo tipo di atteggiamenti evidenzia il cambiamento di visione che, dal 2017, ha portato sauditi ed emiratini a riconsiderare il proprio approccio verso Trump.
Entrambi i paesi avevano accolto con favore la linea dura dell’amministrazione Trump contro l’Iran, incluso l’abbandono dell’accordo nucleare del 2015 e l’imposizione di pesanti sanzioni. Tuttavia, la politica di “massima pressione” aveva esacerbato le tensioni regionali, spingendo i leader del Golfo a riconoscere la propria vulnerabilità. La fiducia nell’ombrello di sicurezza statunitense è stata messa a dura prova nel 2019, quando un attacco con droni e missili contro le infrastrutture petrolifere saudite, attribuito a Teheran (e alle milizie collegate, Houthi compresi), ha messo fuori uso metà della produzione di greggio del regno. Sebbene Washington avesse accusato l’Iran, Trump scelse di non intervenire militarmente, limitandosi a nuove sanzioni.
Entro la fine del mandato di Trump, i leader regionali avevano capito che tale politica non aveva garantito loro maggiore sicurezza. Di conseguenza, Arabia Saudita ed Emirati hanno optato per una strategia di distensione con Teheran, culminata nell’accordo del marzo 2023, mediato dalla Cina, che ha ristabilito i rapporti diplomatici tra Riad e Teheran dopo sette anni di tensioni. L’obiettivo, adesso, è evitare che un’escalation regionale possa compromettere i progetti di sviluppo interni.
È chiaro che l’Arabia Saudita intende rispettare l’accordo mediato dalla Cina “finché l’Iran farà altrettanto”, come ha detto una fonte del regno al Financial Times, convinto che l’attenzione debba concentrarsi sullo sviluppo economico e sul successo della Vision 2030. Intanto, i due paesi hanno iniziato a collaborare anche sul piano militare: il capo delle forze armate saudite, Fayyad al-Ruwaili, ha recentemente incontrato a Teheran il suo omologo iraniano, Mohammad Bagheri, per discutere di cooperazione difensiva.
Nonostante l’impegno di Trump per portare pace in Medio Oriente, le sue dichiarazioni a favore delle offensive militari israeliane e la probabile nomina di “falchi” anti-iraniani nella sua amministrazione sollevano preoccupazioni tra i leader del Golfo. Il rischio, temono i leader del Golfo, è che Trump possa offrire sostegno incondizionato a Netanyahu, anziché moderarlo, rendendo la regione ancora più vulnerabile a un’escalation. Anche per questo la possibilità di riallacciare rapporti diretti con Trump è vista come una elemento prioritario, con disponibilità di muoversi anche nell’ottica delle visioni transazionali della politica estera trumpiana.
Con Joe Biden, inizialmente critico verso l’Arabia Saudita, i rapporti sono migliorati solo in un secondo momento, ma i piani di un accordo di difesa tra Washington e Riad, legato a una normalizzazione con Israele, sono stati sconvolti dalla guerra a Gaza. Trump potrebbe quindi puntare a un “grande accordo” simile agli Accordi di Abramo, con l’obiettivo di porre fine ai conflitti di Israele con Hamas e Hezbollah e di avvicinarsi alla creazione di uno Stato palestinese.