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Ricordando Vittorio De Sica, il regista che fece piangere Chaplin

Il 13 novembre 1974 ci lasciava Vittorio De Sica, attore e regista di fama mondiale, tre volte Oscar. “Una delle qualità di Vittorio De Sica è la versatilità. Dalla commedia al dramma. Ogni sua opera fa centro”, Luchino Visconti

Chi non ricorda l’incipit di Uomini che mascalzoni (1932, Mario Camerini) con un quasi esordiente, nel cinema, “attor giovane”, tale Vittorio De Sica? Eccolo in bicicletta, davanti ad un’edicola fasciata di copertine di riviste di spettacolo e moda, mentre le guarda interessato, rapito. Ora giunge una giovane cliente, Mariuccia (la riservata Mya Franca), con tanto di cappellino fine anni Venti, dai modi delicati: egli ne rimane incantato. Cupido le fa cadere sull’asfalto la moneta ricevuta per resto dal giornalaio. Il giovane, sapremo che si chiama Bruno, rapidamente la raccoglie e la porge alla ragazza. Arriva, delicato, soffice e un tantino imbarazzato il “Grazie” di Mariuccia: la folgorazione del giovane è completa!

Inizia a seguirla con la bici, “inseguendo” il tram su cui la ragazza è salita. Vittorio De Sica, col suo bel volto pieno di luce, sorridente, da giovane innamorabile, e tanto di berretto ribaldo alla francese, appena uscì il film divenne (oggi diremmo “iconico”) il mito dei giovani italiani che sognavano di trovare l’amore uscendo di casa, come nei romanzi d’appendice, ma anche, come Mario Camerini proponeva, nella movimentata vita quotidiana delle metropoli anni Trenta.

 

Quello che fa di questa scena un concentrato di poesia umoristica è l’assenza di dialogo, come nel cinema muto (lo era sino a tre anni prima): un fine gioco di campi controcampi (interno tram/esterno bicicletta che “insegue”), sorrisi sinceri (dell’audace Bruno), sorrisi celati (della timida Mariuccia), sguardi che cercano l’innamoramento e celano l’imbarazzo. Le gag (quella del camion che sta igienizzando la strada e innaffia il giovane corteggiatore in bici) sono squisitamente chapliniane o sennettiane: Mario Camerini, regista dalla fine cultura, trasmetterà tali sotterranee citazioni al giovane De Sica attore, questi se ne ricorderà quando passerà alla regia (per es. la gag del vaso di fiori che Pricò fa cadere, accidentalmente, dal davanzale sulla testa della fantesca che amoreggia con uno spasimante in cortile, viene direttamente da Chaplin – City Light, 1931).

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Cinquant’anni senza Vittorio De Sica. Le foto dal set (e non solo) firmate Pizzi

E tutta la sequenza è incorniciata da un movimento leggermente “futurista” della vita di città (siamo fuori dai teatri di posa), uno dei rari accenni al “realismo” sociale in un periodo in cui il nostro cinema (sotto censura) prediligeva storie borghesi o piccolo borghesi, tutte “da interni”, dove il telefono riceveva molte inquadrature: ecco che gli storici, giustamente, lo ribattezzeranno “cinema dei telefoni bianchi”.

Vittorio De Sica (Sora, 1901- Neuilly-sur-Seine, 13 novembre 1974), è stato un notevole attore e importante regista. Lo spettatore medio lo ricorda, come attore, segnatamente per il personaggio del maresciallo Carotenuto, innamorato della bella Bersagliera (l’agreste ninfa Gina Lollobrigida) in Pane amore e fantasia, 1953, Luigi Comencini: ancora il binomio ‘biciletta & amore’ (qui con il trucco del trasparente); il cinefilo invece lo ha apprezzato sia nei ruoli umoristici da attore maturo (uno per tutti: Uomini e Nobiluomini, 1959: si prenda la famosa gag del sigaro e del fiammifero tra lui e Mario Carotenuto) che in quelli drammatici (Il generale della Rovere, 1960, Roberto Rossellini, Leone d’oro a Venezia, ex aequo con La grande guerra di Mario Monicelli): un De Sica drammatico, soprattutto nelle scene del carcere, che lo spettatore non si sarebbe aspettato.

Insieme a Charlie Chaplin e a Clint Eastwood è forse l’unico attore-regista che abbia raggiunto un plauso mondiale del doppio ruolo professionale, da parte della critica (Gli uomini che mascalzoni ancora oggi è oggetto di studi e tesi di laurea presso diverse università straniere).

Sul versante della regia, la critica e gli storici del cinema annoverano, tra i capolavori mondiali del cinema, alcune sue opere (più d’una firmata insieme allo scrittore Cesare Zavattini): Sciuscià (1946), Ladri di bicilette (1948), Miracolo a Milano (1951), Umberto D (1952), Il giardino dei Finzi Contini (1970). Chi scrive ama anche il bel melodramma di guerra (sottovalutato da gran parte dei recensori), I girasoli (1970), con una toccante Sophia Loren.

Come regista e attore è stato un pluri-premiato. Quattro gli Oscar: Sciuscià (1948), Ladri di biciclette (1950), Ieri, oggi e domani (1965), Il giardino dei Finzi Contini (1972). Oltre a quattro David di Donatello (uno come attore per Pane amore e fantasia), tre nastri d’argento, una Palma d’oro a Cannes (Miracolo a Milano), un Orso d’oro a Berlino (Il giardino dei Finzi-Contini).

De Sica è un regista completo, del livello di un Alfred Hitchcock, di un John Ford, di un Yasujirō Ozu, di un Frank Capra, perché ineccepibile sui tre versanti fondamentali nella creazione del film: la sceneggiatura; l’estetica dell’immagine (ripresa/ montaggio) e la direzione attori. Pensate alle carrellate, egli vi ricorre solo se necessarie: vedete Pricò sul monopattino; o il piccolo Bruno che, dopo il mancato linciaggio del padre da parte della folla, dà la mano all’uomo ormai umiliato dalla povertà e dalla disperazione, in un indimenticabile carrello in dettaglio; ma anche, ad esempio, le ariose carrellate a seguire Adelina incinta (Sophia Loren) per le strette vie di Napoli (Ieri oggi e domani,1964). Oppure i primissimi piani di Il giardino dei Finzi Contini (lo scontro dialettico sul fascismo tra padre – Romolo Valli e figlio Lino Capolicchio) che richiamano quelli, rari, di trent’anni prima, di I bambini ci guardano: lì i volti sofferenti di Pricò e del padre, con gli occhi pieni di lacrime, quando il babbo disperato interroga il piccolo su chi era con la mamma al parco; qui, prima l’amore incompleto tra i due giovani, Giorgio e Micol (Dominique Sanda), poi il dramma finale dei deportati, in una aula scolastica, riflesso sui volti.

Vittorio De Sica costruiva con estrema cura, insieme ai suoi operatori, il secondo piano inserito in un punto di fuga prospettivo di grande forza plastica: evitava che la scena madre, quella in primo piano, non saturasse l’inquadratura. Prendiamo a caso: quando il padre e il figlioletto, disperati per la vana ricerca della biciletta rubata, si appoggiano stanchi sul muretto del lungotevere, ecco che, in secondo piano, entrano in campo un soldato in libera uscita con la sua fidanzata: padre e figli tristi/ i due innamorati felici e sorridenti. Oppure nell’incipit citato di Adelina: mentre il marito (Marcello Mastroianni) della donna e gli amici rincorrono l’avvocato sullo sfondo un gruppo di scolaretti, tutti vestiti di nero, guidati da una monaca animano il secondo piano. De Sica inventa una regia non solo “di attori” ma anche “di comparse”: studiata con estremo realismo ma con eventuale rimando al simbolico.

Racconta il noto storico del cinema, scrittore e poeta Mario Verdone, un episodio relativo a Charlie Chaplin. “Il grande attore e regista venne in visita a Roma nel 1952; andai a riceverlo a Fiumicino. Egli fu ospite del Centro Sperimentale di Cinematografia, dove io lavoravo. Lì incontrò tutti i dirigenti, i docenti e gli allievi del Centro. In suo omaggio gli fu poi proiettato Ladri di bicilette, di Vittorio De Sica (uscito nel 1948, n.d.r.). A fine proiezione, nel foyer e nei corridoi del Centro si riversò il qualificato pubblico di autori ed esperti di cinema, che era stipato nella saletta di proiezione. Tutti noi organizzatori cercavamo Chaplin tra gli invitati, ma non lo vedevamo. Ci guardavamo intorno con discrezione, soprattutto sbirciando dietro gli ospiti più alti, visto che Chaplin era un po’ bassino. Ma niente, Chaplin era sparito. Qualcuno pensò ad uno scherzo del noto comico. Eravamo interdetti. Poi, entrai in sala e vidi Chaplin ancora seduto al suo posto. Si asciugava una lacrima, causata dal finale forte del film di De Sica. Nel dramma del padre disoccupato e del figlioletto aveva visto una eco del suo The Kid (Il monello, 1921). Quando raccontai l’episodio a Vittorio De Sica egli a sua volta si commosse”.

“Vittorio De Sica: un immenso regista di attori”. Parola di Carlo Verdone

Estratto di un’intervista a Carlo Verdone pubblicata nel volume Mario Verdone, Cinema neorealista, con le voci di Carlo Verdone e Luca Verdone, a cura di Eusebio Ciccotti, Treccani, 2023.

Prendiamo Ladri di biciclette. È la storia di una bicicletta rubata, avviene tutto in un giorno, di domenica. Un padre con un bambino alla ricerca della bicicletta, il tentativo finale del furto, il padre catturato dalla, il bambino che lo consola salvandolo dal linciaggio.

Beh, fu un grande film. Un film capolavoro. Un’opera che negli anni ha avuto il successo che si meritava. La grandezza di questo film, come di altri [film neorealisti, n.d.r.]), era di non prendere generici di professione, ma gente della strada. A uno, se aveva la faccia giusta, gli facevi fare il contrabbandiere; a un altro gli facevi fare il ricettatore, a un altro ancora il prete; a un altro un cameriere in una trattoria. Sul telone era tutto così vero.

E qui entra in campo il talento della regia di attori.

Infatti. E siccome ogni gesto, ogni espressione erano autentici, il regista doveva cogliere l’attimo. E De Sica è stato un grande, un immenso direttore di attori. E, soprattutto, regista di attori “presi dalla strada”, come subito si disse. Era in grado di tirar fuori da uno sconosciuto che non aveva mai recitato le espressioni e i gesti del personaggio gli veniva affidato: pensiamo a un Lamberto Maggiorani o a un Enzo Staiola (il bambino), due grandi interpretazioni. Il padre, alto, emaciato, magro, tormentato. Su suo volto non si vedrà mia un sorriso in tutto il film.

De Sica sapeva dirigere soprattutto i bambini…

Ricordiamoci la scena bellissima del bambino al ristorante popolare. Di fronte al tavolo dei protagonisti padre e figlio (Maggiorani e Staiola), c’è una famiglia piccolo borghese. In questa vediamo un bambino, rubicondo, più grassottello, che mangia con tono di sfida un supplì con la mozzarella filante, addirittura con un atteggiamento d’innocente disprezzo verso il povero protagonista. Una scena meravigliosa. Un altro attore non professionista, utilizzato felicemente da De Sica nel ruolo del pensionato protagonista di Umberto D., fu il professore universitario Carlo Battisti, docente di linguistica. Assolutamente sconosciuto nel mondo del cinema, non era un attore. A De Sica piaceva la faccia. Insomma, una caratteristica fondamentale del neorealismo era andare a cercarsi le facce per le strade. Poi il resto al talento del regista: far diventare quel volto, quell’andatura, il personaggio che l’autore ci aveva visto dentro.

Di Battisti c’è quella bella scena al Pantheon quando allunga la mano per chiedere l’elemosina e poi si vergogna…

…e gira il palmo dalla mano in basso facendo finta di vedere se sta piovendo. Film, purtroppo, sempre attuale, se pensiamo alla situazione della maggioranza dei pensionati di oggi.


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