Il Pd non appoggerà il terzo mandato del Governatore della Campania. Una querelle che suona troppo di formalità per siglare un accordo con i 5 Stelle. De Luca è una macchina di consenso conquistato sul campo. La vittoria di Trump dovrebbe ricordare alla sinistra quanto è determinante la rappresentanza dei ceti popolari e la scelta del candidato. L’opinione di Maurizio Guandalini
Vincenzo De Luca, governatore della Campania. I modi lievemente rudi, la mala educazione pret-à- porter, l’insulto facile, ‘io so’ io e voi nun siete un …’ di quella intolleranza rispettosa della gerarchia fatta in casa sua. Il Pd per lui è sempre stato un ingombro. Malgrado tutto, però, la Schlein sbaglia ad aprire in questo momento un caso De Luca non appoggiano l’eventualità (sancita dal Consiglio regionale campano) di candidarsi per il terzo mandato. Perché rimane ancora un tema formale. Da ricorso al Tar e da Corte Costituzionale. Politicamente è un’altra storia. In generale per il numero di mandati sarebbe cosa buona e giusta affermare, attraverso un pronunciamento anche legislativo, per tutte le cariche, non più di quattro mandati, senza vincolo stretto. D’altronde due mandati per sindaco, deputato, presidente di Regione è il minimo sindacale. Servono, nel confusionario Paese che è l’Italia, giusto per orientarsi. Per fare esperienza si diceva una volta, quando la politica era professione (e si dovrebbe ritornare rapidamente a quel periodo). E poi se proprio un partito al suo interno ritiene di avere un altro candidato fa le primarie, anche di coalizione. Il caso De Luca si poteva risolvere così.
Ci vuole quella diplomazia necessaria che riesce a tenere in piedi la baracca senza far danni eccessivi e ulteriori a quelli già presenti. Rifiutare un valore aggiunto in numero di voti come De Luca nel nome di un presunto rinnovamento basato sui mandati per candidarsi, nascondendo un embrasson nous con i 5 Stelle ‘conticini’ (dal leader Conte), è un azzardo. Non si può combattere quell’egocentrismo fastidioso del governatore che sappiamo essere una caratteristica colta dalle leggi elettorali di sindaco e presidente di Regione, basate essenzialmente sulla persona. Se poi ti trovi il governatore e il sindaco che ha qualità di leadership che calzano appieno alla legge elettorale che li ‘incorona’ non ci si può lamentare. Il rendimento si nota da quello che si fa (e la stragrande maggioranza di campani esprime un giudizio positivo sul governatore De Luca) e diventano incomprensibili agli elettori operazioni di cambio di candidato senza ragioni profonde. Di merito. Come potrebbe essere una questione morale.
È la natura del candidato. I meriti che portano una persona a candidarsi. Il rapporto con il consenso. Se non si discute di questo serve a nulla appiccicarsi al divieto al terzo mandato. Lo ricordo alla sinistra che davanti a sé infilza le scoppole elettorali sbagliando la scelta del candidato. L’ultima in Liguria. Dove entra in gioco anche la rappresentanza del consenso di sinistra e del centrosinistra. Già alle consultazioni politiche del 2022 mi era rimasta impressa un’intervista a una famiglia della periferia di Roma, abitante in una casa popolare fatiscente dove il capofamiglia l’ultimo suo voto l’aveva espresso sul simbolo del Pci di Berlinguer. A distanza di decine d’anni si era recato nuovamente in cabina elettorale alle elezioni politiche del 2022 per votare Meloni. A ben vedere in queste ore abbiamo un evento globale come le elezioni americane che esprime sui grandi numeri la crisi del Partito democratico. La classe dirigente di quel partito è troppo lontana dall’America profonda. Kamala Harris si è ritrovata a correre per la Casa Bianca senza meriti. E i tanti vip e denari raccolti non hanno smosso alcunché. De Luca chiede alla Schlein di discutere degli ‘esseri umani in carne ed ossa’ (ha detto così in una sua tradizionale diretta su Facebook), dei loro problemi che li toccano quotidianamente e non delle alchimie correntizie.
A conti fatti, probabilmente, la Schlein ha aperto troppi fronti che ora fatica chiudere. E vedremo cosa salterà fuori dai risultati di Umbria ed Emilia Romagna. La strategia di inglobare sempre e comunque i ‘conticini’ 5 Stelle è cosa buona e giusta se l’obiettivo è riportare al Pd quegli elettori che a suo tempo fuggirono verso Grillo. Però è una strategia che da qui alle prossime politiche è sicuro che l’avvocato Conte, seguendo i precetti di Travaglio, non fiancheggerà per perseguire un’autonomia di movimento che gli possa fruttare maggiore consenso. La fluidità dei 5 Stelle anche quelli non osservanti del Conte Pensiero dovrebbero rallentare la corsa del Pd verso magnifiche sorti e progressive di campo largo. Ne va della salute del Pd e della sua remise en forme.
Un invito alla segretaria Schlein. Anzi due. Il primo evitare di dire continuamente che il suo attuale “impiego” di segretaria del Pd è temporaneo, di passaggio, perché lei sogna di fare la regista cinematografica. Lo ricordavo prima, abbiamo bisogno di professionisti della politica e se lei insiste troppo sulla malavoglia del suo impegno ci sarà chi, presto o tardi, la prenderà sul serio e gli darà il benservito. Secondo, si rilegga una riga del discorso di Walter Veltroni che tenne al Lingotto il 27 giugno del 2007: “Il Pd deve avere un’ambizione non autosufficiente ma maggioritaria”. Poi Veltroni fece l’errore di dimettersi da segretario e non diede corso all’idea del Pd che aveva in testa. Che dovrà essere senza le paturnie di Conte e le miserie di una politica del rammendo.