Chi c’era e di cosa di è parlato al workshop di Med-Or con Nato e Ingv, che ha riunito esperti, diplomatici e rappresentanti della società civile di oltre quindici Paesi Nato e partner. Al centro l’impatto del cambiamento climatico sull’ecosistema securitario del Mediterraneo Allargato, con un focus particolare sulle sfide affrontate dal cosiddetto fronte sud
Il cambiamento climatico non è più solo una questione ambientale, ma un problema totale che tocca la stabilità sociale, economica, geopolitica: in definitiva una priorità di sicurezza nazionale. Questo è stato il tema centrale del workshop “Climate Change and Natural Hazards in the Euro-Mediterranean Region: Security Impacts and Crisis Management”, organizzato dalla Fondazione Med-Or insieme alla Nato Science for Peace and Security Programme (SPSP) e all’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), tenutosi a Roma dal 19 al 21 novembre.
L’evento, che ha riunito esperti, diplomatici e rappresentanti della società civile di oltre quindici Paesi NATO e partner, ha analizzato l’impatto del cambiamento climatico sull’ecosistema securitario del Mediterraneo Allargato, o “Mediterraneo Profondo” (come citato durante una delle sessioni di analisi). Con un focus particolare sulle sfide affrontate dal cosiddetto fronte sud, che include Nord Africa e Medio Oriente, la Nato cerca di muoversi in un ambito dual-use, sia civile (politico-sociale) che tecnico militare.
Migliorare la sicurezza ambientale
La sessione Open Door, parte del workshop, ha rappresentato un momento cruciale di dialogo tra istituzioni e scienza attorno al complesso tema della “envitomental security”. Moderata da Andrea Manciulli, direttore delle Relazioni Istituzionali della Fondazione Med-Or, ha visto gli interventi di figure di rilievo come Kais Abu Dayyeh, ambasciatore della Giordania in Italia, Alessandro Azzoni, direttore generale aggiunto del ministero degli Affari Esteri italiano, Carlo Doglioni, presidente dell’Ingv, Claudio Palestini direttore dello SPSP, Marco Peronaci, rappresentante permanente d’Italia presso la Nato, e Olivier-François Schott, funzionario della Commissione Europea esperto di diplomazia climatica.
Durante la tavola rotonda sono stati discussi temi chiave come l’importanza della cooperazione internazionale, le innovazioni tecnologiche nella gestione delle crisi climatiche e il ruolo della scienza come strumento di pace. Le conclusioni sono state affidate ad Anna Maria Bernini, ministra dell’Università e della Ricerca, che ha sottolineato l’importanza di integrare ricerca e diplomazia per affrontare le sfide future.
Il ruolo della scienza e la necessità di consapevolezza
Il workshop ha introdotto il concetto di “gradiente”, utile per comprendere l’evoluzione dei fenomeni naturali ma anche quello socio-politici, e ha sottolineato il ruolo fondamentale della scienza nel contrastare la disinformazione e nel prevenire conflitti. La scienza, infatti, non è solo un motore di studio e innovazione, ma anche un mezzo per favorire dialogo e stabilità in contesti di crisi.
Un esempio concreto è dato dalle attività della Giordania, che vive le difficoltà legate alla pace nella regione (subendo da anni, direttamente il peso della questione israelo-palestinese, e dell’attuale conflitto a Gaza), ma si sta contemporaneamente impegnando per affrontare gli effetti del cambiamento climatico. Il regno hashemita ha recentemente avviato progetti significativi per migliorare la gestione delle risorse idriche e promuovere le energie rinnovabili, e ospita da poco tempo un liaison office della Nato.
Come ha evidenzia Abu Dayyeh, le complicazioni climatiche si sommano a un contesto già destabilizzato, aggravando tensioni sociali ed economiche. Per questo, la feluca ha ricordato che senza la ricostruzione di una quadro stabile sarà ancora più difficile affrontare il problema totale del climate change.
Una sfida globale con implicazioni locali
Le regioni del cosiddetto “fronte sud” continuano a subire gli effetti più aggressivi del cambiamento climatico. La scarsità d’acqua, ad esempio, sta costringendo comunità precedentemente stanziali a migrare in cerca di risorse. L’esempio dei pastori Fulani illustra come le difficoltà climatiche possano trasformarsi in vere e proprie crisi securitarie: non a caso l’area del Sahel, tra le più colpite dagli effetti del global warming è quella in cui tra golpe e propagazioni delle organizzazioni terroristiche si osserva maggiormente l’interconnessione clima-sicurezza nella produzione di instabilità.
Queste condizioni non solo peggiorano la qualità della vita, ma accrescono il rischio di conflitti, alimentando frustrazioni e insicurezze. Un quadro articolato che apre spazi per le penetrazioni strategiche di attori statali e non-statali che sfruttano ogni occasione — anche l’ambiente di discussione sul climate change — per portare avanti interessi spesso con una declinazione anti-occidentale.
Un approccio integrato per il futuro
Affrontare il cambiamento climatico richiede dunque un approccio integrato che combini scienza, diplomazia e cooperazione internazionale. L’obiettivo è intervenire e sensibilizzare, aumentare la consapevolezza, anche per evitare gli effetti delle attività di disinformazione. Perché per la Nato è un problema che nella fascia climaticamente più complicata e vulnerabile dell’Africa, il Sahel appunto, l’attore internazionale di riferimento sia diventato la Russia, e la sua narrazione anti-occidentale sia largamente diffusa (e per buona parte condivisa dalle collettività locali).
Perdita di biodiversità, erosione degli ecosistemi, cambiamento climatico sono problemi di sicurezza nazionale proprio perché ad essi si connettono i comportamenti delle collettività. Usare certe tematiche e contesti a proprio vantaggio fa parte delle iniziative ibride. Per questo le forme di protezione dell’ambiente sono da collegarsi alle attività di prevenzione dei conflitti in senso generale. Se è vero come è vero che la Nato non è soltanto un elemento militare-difensivo, ma è anche una conquista quotidiana di democrazia e sicurezza, allora è altrettanto vero che adesso sicurezza significa anche combattere il climate change.
La Fondazione Med-Or, con la sua capacità di connettere istituzioni e comunità scientifica, come ricordato da Manciulli, si pone da attore chiave per sensibilizzare e promuovere strategie sostenibili. Un ruolo che anche l’ambasciatore Peronaci e il direttore Azzoni rivendicano come prerogativa strategica per l’Italia.
Un esempio di tale capacità sviluppata da Med-Or, ormai asset geopolitico italiano, lo fornisce l’assenza più che giustificata al workshop di Radmila Sekerinska, ex ministra della Difesa e vicepremier della Macedonia del Nord, attualmente membro dell’International Board della fondazione, impossibilità a partecipare come da programma perché nominata in questi giorni vice segretaria della Nato.