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Lo smart working piace ancora, ma non alle Pmi. I numeri del Politecnico di Milano

A quasi tre anni dalla fine della pandemia e a sei mesi dalla scadenza naturale dei termini di legge, la misura nata con il lockdown continua a vivere nella Pa e nelle grandi aziende. Mentre in quelle minori perde terreno. I dati del Politecnico di Milano

Lo smart working resiste. A oltre due anni dalla fine della pandemia, la creatura simbolo dell’emergenza sanitaria e dei lockdown, continua ad animare il dibattito, dentro e fuori le imprese, sopravvivendo a se stesso. Nonostante lo stop a tutte le misure di lavoro agile, infatti, il numero di occupati da remoto è sostanzialmente stabile: 3,55 milioni rispetto ai 3,58 milioni del 2023 (-0,8%). Lo smart working cresce, secondo i dati del Politecnico di Milano, nelle grandi imprese, dove coinvolge quasi 2 milioni di lavoratori (1,91 milioni, +1,6% sul 2023), vicino al picco della pandemia, con il 96% delle grandi organizzazioni che oggi hanno consolidato delle iniziative.

Cala, invece, nelle Pmi, passando a 520 mila lavoratori dai 570 mila dell’anno scorso e resta sostanzialmente stabile nelle microimprese (625 mila nel 2024, 620 mila nel 2023) e nella Pa. E il futuro? Per il 2025 si prevede una crescita del +5%, che porterebbe a toccare 3,75 milioni. A far evolvere le iniziative, in termini di persone coinvolte o di policy, saranno soprattutto le grandi imprese (35%) seguite dalle Pa (23%) e dal 9% delle pmi. Tutte le grandi imprese prevedono di mantenere il lavoro agile anche in futuro. Il 35% delle grandi imprese e il 43% delle amministrazioni statali prevede un incremento dei lavoratori coinvolti nel prossimo anno, mentre nelle Pmi la direzione è opposta, con solo l’8% che ipotizza un aumento.

Non è finita. Gli smart worker italiani possono lavorare da remoto in media 9 giorni al mese nelle grandi imprese, 7 nella Pa e 6,6 nelle Pmi. Il lavoro agile è una pratica diffusa e apprezzata a cui ben pochi rinuncerebbero: il 73% dei lavoratori che se ne avvalgono si opporrebbe se la propria azienda eliminasse questa forma di flessibilità. Nello specifico, il 27% penserebbe seriamente di cambiare lavoro, il 46% si impegnerebbe per far cambiare idea al datore di lavoro.

Per cercare di compensare almeno in parte la mancata possibilità di lavorare da remoto, secondo i lavoratori, l’azienda dovrebbe offrire una maggiore flessibilità oraria o aumentare lo stipendio di almeno il 20%. Tra chi è tornato in totale presenza dopo aver lavorato da remoto solo il 19% lo ha fatto per scelta personale, perché non ha più la necessità di lavorare da remoto o semplicemente preferisce socializzare con i colleghi in presenza; il 23% ha una nuova mansione non svolgibile da remoto, mentre per la grande maggioranza (58%) è stata una decisione presa dall’azienda.

Tutto questo quando, dallo scorso primo aprile nel settore privato è venuto meno qualsiasi criterio di priorità nell’accesso al lavoro agile, il cui svolgimento è oggi negato o concesso dal datore di lavoro in funzione delle proprie esigenze. Da mesi, dunque, è tornato a essere centrale l’accordo tra datore di lavoro e dipendente. Ma, come testimoniano anche i dati menzionati, il lavoro agile è considerato sempre più un fattore d’appeal per un’impresa, intenzionata ad attrarre e mantenere talenti.


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