L’essenza della nuova strategia sta nel programmare la rinascita economica dell’America sul mare e nel ribadire che la libertà di navigazione è l’architrave della governance mondiale dei mari. Entrambi gli obiettivi si propongono di contrastare l’inarrestabile ascesa geostrategica della Cina che dei mari ha fatto negli ultimi anni il pilastro delle sue fortune. L’analisi dell’ammiraglio Fabio Caffio
“Gli Stati Uniti sono una nazione marittima. Il nostro modo di vivere dipende da un accesso sicuro, aperto e affidabile agli oceani…I mari ci collegano ai mercati esteri dove compriamo e vendiamo forniture essenziali a far crescere la nostra economia e sostenere posti di lavoro americani ben retribuiti in patria. I mari hanno giocato un ruolo indispensabile nel consentire all’America di diventare la nazione più prospera e potente del mondo”.
Con queste poche parole, chiare ed incisive, è stata già delineata la strategia marittima della nuova amministrazione statunitense in una Guida per il Congresso redatta lo scorso aprile da figure di spicco del prossimo team governativo di Donald Trump, tra cui il senatore Mark Rubio designato Segretario di Stato.
L’essenza della nuova strategia sta nel programmare la rinascita economica dell’America sul mare e nel ribadire che la libertà di navigazione è l’architrave della governance mondiale dei mari. Entrambi gli obiettivi si propongono di contrastare l’ inarrestabile ascesa geostrategica della Cina che dei mari ha fatto negli ultimi anni il pilastro delle sue fortune.
Nella premessa del documento si fa un’analisi impietosa dell’attuale situazione dello shipping statunitense: 200 mercantili di bandiera a fronte di 7.000 cinesi; 150.000 lavoratori nella cantieristica, contro 600.000 di Pechino; 12.000 marittimi, rispetto a 1.700.000 cinesi. Per farne poi discendere l’indicazione di traguardi di prosperità marittima da raggiungere nei settore di cantieristica, lavoro e trasporti marittimi, sorveglianza infrastrutture critiche e loro rafforzamento mettendo al bando i prodotti cinesi sinora impiegati. Sullo sfondo la ripresa dello sfruttamento delle energie fossili in mare cui il Presidente Trump attribuisce valenza economica prioritaria. Altrettanto incisivo l’obiettivo di assicurare che le Forze navali degli Stati Uniti e dei suoi Alleati possano effettivamente difendere la libertà di navigazione in alto mare: a metterla in pericolo è l’aggressività di Pechino nel Mar della Cina Meridionale (SCS), le minacce asimmetriche dell’Iran nello Stretto di Hormuz e degli Houthi nel Mar Rosso ed Aden, la pirateria che incombe in vari chokepoint critici.
Se l’intento di rafforzare la capacità industriale marittima statunitense segna una svolta dopo anni di declino, non altrettanto può dirsi relativamente al mantenimento della libertà di navigazione. Per Washington, questa è infatti una costante, facente parte del Dna della nazione sin dai primi dall’Ottocento (si ricordi la lotta alla pirateria del Pasha di Tripoli iniziata nel 1805). Non a caso il secondo dei 14 Punti del presidente Wilson del 1918 affermava con chiarezza la «Assoluta libertà di navigazione, al di fuori delle acque territoriali, in pace come in Guerra…», mentre il XII reclamava per i Dardanelli un regime di libertà di passaggio da/per il Mar Nero. Da questo punto di vista, è perciò certo che continueranno le operazioni condotte dagli Stati Uniti da decenni nell’ambito del Freedom of Navigation Program (Fon), intensificatesi negli ultimi anni nel Scs e nello Stretto di Taiwan.
Corollario irrinunciabile di una simile strategia navale è l’incremento e l’ammodernamento delle capacità di proiezione della US Navy che ha perso posizioni, a fronte dei passi da gigante compiuti dalla Marina cinese. Quanto alla US Coast Guard che dopo l’11 settembre è divenuta la componente principale della Homeland Security e che l’Amministrazione Biden ha impiegato in scenari di crisi oltremare, quali Golfo Persico, Scs ed Artico, è presumibile che il trend continui. Anche se, il presidente Trump vorrà forse impiegarla in modo più incisivo nel controllo delle frontiere marittime in funzione antimmigrazione, limitandone l’impiego, a tutto beneficio della US Navy, in teatri di prevalente confronto militare con la Cina.
Insomma, America First, anche e soprattutto sui mari, con l’appoggio di Alleati e Partner (cioè di Paesi facenti stabilmente o occasionalmente parte di coalizioni) disposti a condividere Operazioni Fon (Fonops) come quelle condotte nel Scs oppure missioni di Maritime Security contro pirateria ed attività illecite quali la pesca illegale praticata su vasta scala dalla Cina in alto mare.
La nuova strategia marittima Usa ci tocca ovviamente da vicino sia per i nostri interessi industriali (shipping con navi di bandiera e partnership di Fincantieri con la cantieristica navale americana per la costruzione delle Unità classe “Constellation”), sia per l’allargamento all’Indo-Pacifico della presenza della Marina Militare Italiana. Le recenti missioni in area di nostre navi da guerra, prima tra tutte quella del Carrier Strike Group del “Cavour”, sono eloquenti espressioni di condivisone con l’Alleato americano degli obiettivi che si prefigge nel Scs.
Durante il G7 a guida italiana, nel corso della ministeriale dedicata alla Difesa (17-20 ott.) con una specifica Joint Declaration abbiamo d’altronde sottoscritto solennemente l’adesione ai principi di libertà di navigazione nell’Indo-Pacifico assieme agli altri partner degli Usa come Uk, Francia, Germania, Canada, Giappone. Il tono della Dichiarazione non ammette dubbi: “There is no legal basis for China’s expansive maritime claims in the South China Sea, and we are strongly opposed to China’s repeated obstruction of freedom of navigation, militarization of disputed features and coercive and intimidating activities, as well as the dangerous use of Coast Guard and maritime militia vessels in the South China Sea (…) We reaffirm that maintaining peace and stability across the Taiwan Strait is indispensable to international security and prosperity”. Unici tra i firmatari del documento, noi abbiamo tuttavia omesso di condurre Fon Operations (Fonops), mentre la Germania ha addirittura assunto posizioni dure contro la Cina, anche per il transito nello Stretto di Taiwan. La nostra tradizionale moderazione in politica estera – indotta in questo caso dal tentativo di riequilibrare le relazioni commerciali con Pechino su basi paritarie – ci ha portato ad assumere un profilo basso nel Scs impostato sulla presenza come deterrenza. Eppure, non dovremmo dimenticare che gli Stati Uniti sono i campioni della libertà di navigazione basandosi sui principi consuetudinari del diritto del mare, non avendo ratificato la relativa Convenzione Unclos. Mentre l’Italia, assieme a Germania ed Olanda, è tra i pochi Paesi che hanno formalizzato il loro sostegno alla libertà di navigazione rilasciando una dichiarazione interpretativa dell’Unclos al momento di firmarla e ratificarla.
Tutto questo porta a ritenere che ci siano le condizioni – sia giuridiche che politiche – per riconsiderare, previo approfondimento in sede parlamentare, la posizione italiana sulla messa in atto di mirate FONOPs nell’Indo-Pacifico per dare spessore alla nostra capacità di proiezione di recente dimostrata dalla missione del Csg.
Anche perché, come detto dal Capo di Stato Maggiore della Marina, amm. Enrico Credendino: “Stiamo gradualmente abbracciando la nozione strategica di ‘Mediterraneo Globale’…In sostanza, stiamo passando dall’interoperabilità all’intercambiabilità con la Marina americana».