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Tra fazionalismi e visioni del futuro. L’arena del G20 vista da Dian (UniBo)

Il vertice che si aprirà tra poche ore vedrà il manifestarsi di trend già presenti in passato, come l’emergere del Global South e il confronto tra G7 e Brics. Ma anche nuovi fenomeni, come la “discrasia” americana. L’opinione di Matteo Dian, professore associato di Storia e Relazioni internazionali dell’Asia Orientale presso l’Università di Bologna

Nel fine settimana a venire il Brasile, in qualità di presidente di turno, ospiterà il vertice annuale dei capi di Stato del G20, in un contesto internazionale caratterizzato da tensioni e instabilità crescenti, ma anche da inversioni di marcia come quella avvenuta con le elezioni presidenziali statunitensi dello scorso 5 novembre. Tutti fattori che favoriscono l’emergere di nuove, ed alternative, posizioni sulla scena globale. Formiche.net ha chiesto una panoramica sulla situazione a Matteo Dian, professore associato di Storia e Relazioni internazionali dell’Asia Orientale presso l’Università di Bologna.

Cosa c’è da aspettarsi dal vertice del G20 che inizierà tra poche ore in Brasile?

Teniamo conto che, in un contesto come quello del G20, la presidenza ha un certo potere di indirizzo. Tra i temi di discussione risalteranno dinamiche molto care al Brasile di Ignacio Lula, come disuguaglianze globali, riforma della governance globale e delle istituzioni multilaterali, e sviluppo sostenibile. Il G20 dovrebbe, almeno teoricamente, essere un forum che coltiva soluzioni non necessariamente alternative all’ordine americano guidato dagli Stati Uniti, ma complementari ad esso. Lula potrebbe quindi cercare una posizione relativamente intermedia tra quella di Washington e quella di altri attori, come ad esempio la Cina. In questo senso, la presidenza brasiliana tenderà probabilmente a sottolineare l’importanza di una governance globale più rappresentativa e inclusiva anche a livello ideologico, capace di integrare le istanze del Global South. Ricordiamo il G20 sotto la presidenza dell’Indonesia, dove si era discusso su come rispondere alla guerra in Ucraina, trovando però che molti stati membri (Indonesia in primis) non volevano condannare la Russia. Questo riflette l’emergere del Global South, che spesso pone l’accento su problemi diversi rispetto a quelli sollevati dall’Occidente.

Il forum del G20 comprende sia i Paesi del G7 che alcuni dei principali esponenti dei Brics. Qual è il peso di queste due realtà nelle dinamiche del primo?

Entrambe contano molto. Il G20 dovrebbe essere, come detto, un forum più neutro, ampio e rappresentativo rispetto al G7, che inizialmente aspirava a essere la “cabina di regia” del mondo, ma è diventato nel tempo l’espressione delle democrazie liberali occidentali. Dall’altra parte, i Brics rappresentano un gruppo molto eterogeneo e poco coerente dal punto di vista ideologico, ma piuttosto allineato strategicamente. I Paesi membri dei Brics sono potenze (non necessariamente grandi, soprattutto dopo l’ultimo allargamento) che cercano un ruolo e uno status internazionale alternativo, consapevoli che la guida del gruppo è nelle mani di Pechino e, in parte, di Mosca. Quest’ultima spera di utilizzare questa piattaforma per ripristinare la propria legittimità dopo il 2022 e per riaffermarsi nella competizione per l’ordine internazionale come parte di un gruppo che propone visioni “illiberali”. È una dinamica importante, soprattutto sul piano normativo.

Quali sono i temi principali su cui il Brasile di Lula intende puntare, soprattutto in relazione alle presidenze che l’hanno preceduto e seguiranno?

Per il Brasile di Lula, i temi centrali sono la lotta alla fame, la povertà, le disuguaglianze, lo sviluppo sostenibile, la protezione dell’ambiente e la riforma della governance globale. Questi argomenti potrebbero rappresentare un punto d’incontro tra le prospettive occidentali e quelle alternative di cui abbiamo parlato. Anche il Sudafrica, che assumerà la presidenza nel 2025, è particolarmente attento a queste prospettive e potrebbe non allinearsi necessariamente con l’Occidente su temi centrali per quest’ultimo. Un indicatore di ciò è stata la guerra in Ucraina, dove diversi Paesi del Sud globale non si sono spesi nel condannare la Russia o nel sostenere l’Ucraina, preferendo una posizione di compromesso. Questo suggerisce che per loro le priorità sono altre, soprattutto sviluppo sostenibile, transizione ambientale e riforma della governance internazionale. Quest’ultima implica anche la revisione del funzionamento delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza, obiettivo estremamente complesso vista la diversità di coalizioni e interessi all’interno del G20.

Il vertice che si aprirà tra poche ore è in un certo senso un vertice “zoppo”, poiché a rappresentare gli Stati Uniti ci sarà l’amministrazione Biden, mentre dal gennaio del prossimo anno il potere negli Usa sarà assunto dal neoeletto presidente Donald Trump, il cui orientamento si discosta pesantemente da quello dell’attuale amministrazione su temi chiave per il G20, dalla sicurezza all’economia fino al cambiamento climatico. Come e quanto peserà questa discrasia?

Sì, questo vertice si apre in un momento di forte discontinuità tra l’approccio dell’amministrazione Biden, attualmente in carica, e quello dell’amministrazione Trump, che sta per subentrare. La discrasia emerge innanzitutto nel modo in cui gli Stati Uniti intendono rapportarsi alle istituzioni multilaterali e alle sfide globali: Biden ha promosso attivamente la cooperazione internazionale su temi come il cambiamento climatico, mentre Trump tende a vedere gli Stati Uniti come meno vincolati dalle organizzazioni multilaterali. Questo atteggiamento potrebbe isolare gli Stati Uniti e indebolirne l’influenza globale, dando maggiore spazio ad altri Paesi, come la Cina, che puntano alla leadership in settori chiave come l’energia pulita e la tecnologia sostenibile. La Cina, infatti, ha colto l’opportunità di investire in settori strategici come la produzione di veicoli elettrici, promuovendo un’immagine di sé come leader responsabile per il cambiamento climatico e l’innovazione tecnologica. Al contrario, se sotto Trump gli Usa dovessero tornare a politiche più focalizzate sui combustibili fossili e meno orientate alla cooperazione internazionale, rischiano di lasciare campo libero alla Cina in queste sfide cruciali per il futuro.

E non sarebbe deleterio per Washington nella sua “sfida esistenziale” con Pechino?

Certamente. Questo cambio di direzione potrebbe spingere il Sud Globale a collaborare sempre di più con la Cina. La “discrasia” attuale rischia di creare una divergenza di visioni che limita la capacità degli Stati Uniti di influenzare le soluzioni globali. Oggi essere leader globale non significa solo essere potenti, ma anche saper proporre soluzioni innovative e sostenibili. Se gli Stati Uniti rinunciano a questo, offrono alla Cina l’opportunità di consolidare la propria posizione come guida per il futuro.


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