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Senza Gallant ma con Trump, Netanyahu dopo 13 mesi di guerra. Conversazione con Dentice

Per Dentice (CeSI), con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca “una cosa è certa: il Medio Oriente andrà incontro a nuove trasformazioni”. Maggiore libertà per Israele, spinta sugli Accordi di Abramo, pressione contro l’Iran, ecco i totem trumpiani che segnano anche il cambiamento sui tredici mesi di guerra regionale

Con sette fronti aperti (Gaza, Libano, Siria, Iraq, Yemen, Iran, Cisgiordania) attorno a sé, il leader israeliano Benjamin Netanyahu decide di sfiduciare Yoav Gallant, popolare ministro della Difesa, perdendo un pezzo caratterizzante del suo governo, ma vi aggiunge un fattore potenzialmente determinante: il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. Una fonte diplomatica commenta che “la scelta di Bibi è stato il momento in cui ho capito che Trump avrebbe davvero vinto”, alludendo al fatto che l’israeliano abbia scelto di tagliare i complicati rapporti con il ministro anche approfittando che lui era quello che aveva più rapporti con l’amministrazione Biden.

Se nel discorso dei setti fronti Netanyahu denunciava coloro che come Emmanuel Macron proponevano un embargo sulle armi contro Israele per pressare sul cessate il fuoco, con una postura severa per le migliaia di vittime civili prodotte nella guerra di reazione all’attacco di Hamas del 10/7. “Shame on you”, diceva Netanyahu: tra quel “you” non ci sarà certamente Trump, da cui ci si aspetta piuttosto un maggiore sostegno al governo Netanyahu.

“La politica di Trump si tradurrà probabilmente in un sostegno incondizionato a Israele, come dimostrato dalle immediate congratulazioni di Netanyahu”, spiega Giuseppe Dentice, responsabile del Mena Desk del CeSI. “Possiamo immaginare un minore impegno diplomatico su Gaza, che potrebbe soddisfare Tel Aviv in termini di controllo della Striscia e del Corridoio di Philadelphi. Allo stesso modo, potremmo assistere a un disinteresse per i palestinesi e la Cisgiordania e a una potenziale via libera per una ‘buffer zone’ israeliana nel sud del Libano”, spiega a Formiche.net, nell’appuntamento con cui dal 7 ottobre 2023 si analizza mensilmente l’andamento della crisi mediorientale.

Quali saranno gli impatti del ritorno di Trump alla Casa Bianca sulla regione, considerando i diversi contesti geopolitici che la caratterizzano? “Partiamo con il dire che il ritorno avrà impatti molto diversi a seconda dei variegati contesti delle dinamiche internazionali. Paradossalmente, tuttavia, le differenze potrebbero rivelarsi meno pronunciate in Medio Oriente, dove anche il programma di Kamala Harris non si discostava sostanzialmente dalle posizioni del vincitore”.

Esiste una linea definita nella politica di Donald Trump nella regione? Questo suo secondo mandato sarà caratterizzato da un andamento meno frammentato e discontinuo rispetto a quello che abbiamo conosciuto in precedenza? “Sebbene non sia facile individuare una linea coerente nella politica estera di Trump, è possibile rilevare alcuni punti cardine della sua visione, caratterizzata da un mix di assertività e pragmatismo. Trump potrebbe recuperare il suo approccio unilaterale già sperimentato nel primo mandato, con un focus particolare su temi come gli Accordi di Abramo e la politica di ‘massima pressione’ nei confronti dell’Iran”.

Per Dentice, che ha curato l’analisi sull’impatto di Usa2024 sul Medio Oriente nell’approfondimento del CeSI “Trump o Harris: il futuro della politica americana dopo le elezioni”, Trump rafforzerà senza dubbio il framework degli Accordi di Abramo, orientandoli in una chiave dichiaratamente anti-Teheran. Qui il sogno non segreto è procedere alla normalizzazione israelo-saudita per favorire l’inclusione formale di Riad nel quadro degli accordi e creare un sistema di gestione delle dinamiche regionali in mano a partner e alleati  americani, che isoli l’Iran per peso e prospettive — mirando anche ad una ipotetica competizione tra potenze con Cina e Russia.

“Potremmo assistere a un inasprimento delle sanzioni economiche contro l’Iran, a una retorica più conflittuale e al contenimento del programma nucleare, con l’eventualità di azioni militari limitate su suolo iraniano. Tuttavia, è improbabile che ciò conduca a un coinvolgimento militare diretto degli Stati Uniti”, aggiunge Dentice. D’altronde, la narrazione che ha accompagnato parte della campagna elettorale e le prime reazioni alla vittoria di Trump riguarda il suo essere “il candidato della pace”.

“L’approccio di Trump sarà probabilmente caratterizzato da una postura transazionale nei rapporti bilaterali, mirata a ottimizzare gli interessi di Washington. Si prevede dunque un rafforzamento dei legami con Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Turchia, con alcuni elementi che possiamo definire già i probabili totem per la regione”.

Questi elementi chiave – che per Dentice sono supporto incondizionato a Israele, Accordi di Abramo anti-iraniani, e un pragmatismo transazionale nelle relazioni bilaterali – potrebbero essere i fattori necessari a garantire gli interessi di Washington nell’area Middle East and Nordafrica? “Certamente. Ma resta da vedere come gli attori regionali risponderanno a queste politiche. Tuttavia una cosa è certa: il Medio Oriente andrà incontro a nuove trasformazioni”.

Ieri mattina presto, mentre tutti i leader regionali si congratulavano per la vittoria del repubblicano, le sirene di allarme suonavano sulle Trump Heights (in ebraico, “Ramat Trump”), un piccolo insediamento israeliano sulle Alture del Golan che chiaramente prende il nome da Trump (è stato fondato nel 2019 come gesto simbolico per onorare Trump in seguito alla decisione della sua amministrazione di riconoscere la sovranità israeliana sulle alture del Golan). Negli stessi minuti il vice comandante in capo dei Pasdaran, Ali Fadavi, dichiarava che Teheran è pronta allo scontro con gli Stati Uniti e Israele, e non esclude un attacco preventivo da parte dei nemici.

(Foto account X @netanyahu)



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