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Dazi, tasse e Fed. L’atto secondo della trumpnomics

​L’età dell’oro sognata dal 47esimo presidente degli Stati Uniti passa per una minore pressione fiscale sulle grandi aziende, prospettiva che piace molto ai mercati e agli investitori ma potrebbe impattare sul debito federale. Con la Cina la Casa Bianca tornerà quasi certamente a mostrare i muscoli, anche se questo potrebbe andare a discapito dell’Europa. E attenzione al rapporto con la Federal Reserve

Gli economisti l’hanno sempre chiamata trumpnomics. Un appellativo che ha sempre messo di buon umore i mercati, per un motivo molto semplice. Una delle pietre angolari della politica economica del 47esimo presidente degli Stati Uniti, è il taglio delle tasse sui grandi patrimoni e sulle imprese. Questo, nella logica del mercato, vuol dire la possibilità di distribuire agli azionisti, che spesso e volentieri sono i risparmiatori, di dividendi più generosi. Dunque, più soldi nell’economia.

D’altronde, nel programma di Trump, è ben chiara la volontà di ridurre ulteriormente l’aliquota fiscale societaria, portandola dal 21 al 15% per le aziende che producono negli Stati Uniti, in continuazione con le politiche della sua precedente amministrazione che includeva la legge fiscale del 2017, nota per aver introdotto tagli significativi alle imposte per le aziende e per i contribuenti più ricchi. Trump, poi, vorrebbe anche eliminare la doppia imposizione fiscale per i cittadini americani che vivono all’estero e non tassare i benefici della social security (le pensioni).

Come la rivale Kamala Harris, il successore di Joe Biden ha inoltre proposto di eliminare le tasse sui guadagni che derivano dalle mance. Nel programma è prevista pure la deducibilità fiscale dei pagamenti dei prestiti auto e l’eliminazione delle imposte sui guadagni da straordinari. Nelle intenzioni del candidato repubblicano, queste misure dovrebbero aumentare gli incentivi a investire e produrre. Certo, non sarà facile mettere mano alle tasse senza considerare un fattore e cioè che il debito pubblico americano viaggia nell’ordine dei 30 mila miliardi di dollari. Anzi, anche più.

Negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno infatti registrato un aumento straordinario del debito pubblico. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale che si riferiscono al General government, ovvero alla Pubblica amministrazione italiana nel 2023 il debito ha raggiunto la notevole cifra di 33,4 mila miliardi di dollari e, a politiche invariate, ed è destinato ad aumentare fino a superare i 40 mila miliardi nel 2026; in rapporto al Pil, questi numeri corrispondono al 122% e al 131%. E non sono pochi gli analisti che prevedono entro una decina di anni, un debito federale di 50 mila miliardi. Va da sé come con il passare del tempo e l’aumentare della dimensione dell’esposizione, la presenza di grandi compratori globali sarà sempre più importante.

Trump dovrà lavorare su questo, sul garantire fiducia e credito dei mercati americani. E anche sul versante fiscale, il presidente degli Stati Uniti dovrà stare attento a non stressare troppo i conti pubblici: meno tasse vuol dire anche meno entrate per il bilancio federale. Rimanendo sul versante interno, poi, c’è da definire il rapporto tra Casa Bianca e Federal Reserve, a cui Trump vorrebbe mettere mano. Non è certo un mistero che in campagna elettorale l’imprenditore diventato presidente abbia più volte auspicato di avere maggiore controllo sulla politica monetaria della Fed, riducendone l’indipendenza. Ha criticato in passato le decisioni del presidente della Fed, Jerome Powell, ritenendo che il presidente degli Stati Uniti dovrebbe avere voce in capitolo sulle scelte della banca centrale, per esempio l’impostazione dei tassi di interesse.

Fin qui le questioni più strettamente domestiche. Poi c’è il resto del mondo e qui il discorso va a cadere direttamente sulla Cina. La seconda amministrazione Trump con ogni probabilità proverà a irrigidire i rapporti commerciali con il Dragone. Anche qui il repubblicano è stato chiaro durante tutta la campagna elettorale, sostenendo l’introduzione di elevati dazi doganali che, nelle sue intenzioni, dovrebbero proteggere le industrie americane e incrementare le entrate fiscali. Il suo piano prevede una tariffa del 10% su tutti i beni importati e una del 60 specifica per i prodotti provenienti dalla Cina. Trump afferma che queste misure costringeranno le altre nazioni a ricompensare gli Stati Uniti per il loro ruolo storico globale e prevede che i dazi generati possano ammontare a centinaia di miliardi di dollari.

Va detto che si scorge una certa continuità con quanto fatto da Biden con la concorrenza cinese. L’amministrazione uscente, infatti, ha aumentato considerevolmente il numero di aziende cinesi presenti nella Entity List Usa, ovvero quelle a cui per i produttori statunitensi è vietato vendere prodotti, colpendo in particolar modo il settore tech. Più recentemente, il governo americano aveva agito anche sull’imposizione di nuovi dazi alle importazioni raddoppiando la tariffa su semiconduttori e celle solari (da 25% a 50%), e introducendone una del 25% su una lunga selezione di materie prime critiche e una sulle auto elettriche destinata a raggiungere il 100%. I dazi di Trump, però, sono fonte di grande preoccupazione per gli analisti, tanto che potrebbero avere un impatto negativo di 78 miliardi di dollari sulla capacità di spesa annuale degli americani.


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