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Cosa aspettarsi per il Medio Oriente dopo Usa2024

usa2020

Trump o Harris, la strategia americana per il Medio Oriente potrebbe restare la stessa, per quel che riguarda il generale disimpegno, ma cambierebbero i toni. E dunque forse le dinamiche della regione

“La prossima volta che i leader statunitensi propongono di intervenire in Medio Oriente per cambiare un regime ostile, si può tranquillamente presumere che una tale impresa sarà più costosa, meno di successo e più piena di conseguenze non intenzionali di quanto i sostenitori di tale azione si rendano conto o ammettano”, scriveva nel 2020 Philip Gordon, oggi principale consigliere per la sicurezza nazionale di Kamala Harris, vicepresidente in carica e candidata democratica che il 5 novembre affronterà Donald Trump.

“Almeno finora, non è mai stato il contrario,” chiosava Gordon, destinato a un ruolo centrale nell’amministrazione, se Harris vincerà. Il suo commento riflette un sentimento condiviso tra gli elettori di entrambi gli schieramenti: le guerre in Medio Oriente sono detestate, considerate ormai uno spreco di risorse — di molti generi — sostanzialmente infruttuose e inefficaci.

La crisi attuale in Medio Oriente rappresenta uno dei dossier più complessi che la prossima amministrazione statunitense dovrà affrontare. Il conflitto israelo-palestinese, la crescente tensione tra Israele e Iran, e la questione della normalizzazione delle relazioni tra Israele e Paesi arabi (dagli Accordi di Abramo fino alla più difficile e cruciale normalizzazione con l’Arabia Saudita) sono al centro della strategia americana nella regione. Questa strategia dovrà ruotare attorno a un tema fondamentale: la ricostruzione della deterrenza — ormai compromessa al punto che addirittura l’alleato tedesco ha evitato di far transitare due navi militari nel Mar Rosso, temendo attacchi dagli Houthi.

Oggi il Pentagono ha comunicato di aver ordinato il dispiegamento di ulteriori cacciatorpedinieri, alcuni squadroni di caccia e aerei cisterna e bombardieri da attacco a lungo raggio B-52 nella regione. Queste forze inizieranno ad arrivare nei prossimi per compensare il ritiro annunciato della Lincoln, una delle due portaerei attualmente nell’area. Questi schieramenti accompagnano la recente decisione di dispiegare il sistema di difesa missilistica Terminal High Altitude Area Defense (THAAD) in Israele, e dell’Amphibious Group Marine Expeditionary Unit (ARG/MEU) nel Mediterraneo orientale.

Le politiche estere di Trump e Harris offrono prospettive diverse su come gli Stati Uniti potrebbero gestire le sfide regionali (e di conseguenza anche questi dispiegamenti). Tuttavia, anche se la vittoria di uno o dell’altro influenzerà sicuramente le dinamiche regionali, resta chiaro che l’impegno per plasmare il futuro del Medio Oriente sarà bilanciato su un graduale disimpegno, iniziato con l’amministrazione Obama.

Trump: appoggio incondizionato e contenimento dell’Iran

Un ritorno di Trump alla Casa Bianca potrebbe portare a un approccio dai toni più aggressivi nella gestione delle crisi mediorientali. Durante il suo primo mandato, l’ex presidente ha sostenuto Israele, allontanandosi dal sostegno alla soluzione dei due Stati e abbracciando, invece, una visione che favorisce l’espansione territoriale israeliana. Tuttavia, si vocifera che il repubblicano abbia chiesto a Benjamin Netanyahu di concludere la guerra a Gaza entro l’inaugurazione presidenziale, prevista per le prime settimane di gennaio.

Trump sa che, esclusa la componente ebraica ed evangelica sionista, il resto del suo elettorato non desidera guerre nel Medio Oriente, in linea con la visione nazionalista ereditata da “America First.” Anche per questo nacquero gli Accordi di Abramo, un tentativo di consolidare alleanze regionali contro l’Iran e gestire la regione “da remoto.”

Per quanto riguarda l’Iran, Trump ha sempre considerato la Repubblica Islamica una minaccia da contenere, anche a costo di azioni drastiche. Fu lui a ordinare l’eliminazione di Qassem Soleimani nel 2020, il costruttore dell’“Asse della Resistenza”. Trump decise anche l’uscita unilaterale dal Jcpoa, l’accordo nucleare iraniano, senza una giustificazione tecnica, promettendo un nuovo accordo che non è mai arrivato. Un secondo mandato di Trump potrebbe intensificare le sanzioni e ridurre gli spazi diplomatici, aumentando il rischio di tensioni e di un conflitto diretto.

Harris: continuità e approccio multilaterale

Una presidenza Harris segnerebbe probabilmente una continuità con la politica dell’amministrazione Biden, di cui Harris è già parte. Certamente i toni sarebbero più cauti e orientati alla diplomazia multilaterale. Harris potrebbe mantenere l’appoggio a Israele ma con una linea più critica e un’attenzione maggiore ai diritti dei palestinesi, pur consapevole dei limiti posti dal governo Netanyahu, che si appoggia su formazioni di estrema destra anti-palestinese.

Anche con Harris, gli Stati Uniti manterrebbero forti rapporti con Qatar, Emirati e Arabia Saudita, oltre che con Israele. La differenza maggiore potrebbe riguardare l’Iran: Harris potrebbe riportare l’attenzione sulla diplomazia nucleare, in linea con l’approccio di Obama, esplorando forme di contenimento meno aggressive rispetto a Trump.

L’Iran e la Sfida della “Forward Defense”

L’Iran non rappresenta solo la questione nucleare: la sua strategia di influenza regionale, basata sulla “forward defense” affidata all’Asse della Resistenza, si proietta nei Paesi vicini per proteggere i propri confini e consolidare la propria posizione. Come gestire questo network di milizie? Trump potrebbe sostenere operazioni militari israeliane per degradare le capacità di Teheran, mentre Harris potrebbe tentare una politica di contenimento, sfruttando i canali diplomatici per evitare un’escalation.

L’Arabia Saudita come partner strategico

Entrambi i candidati riconoscono l’importanza di rafforzare i legami con l’Arabia Saudita, con cui l’amministrazione Biden ha avuto un approccio inizialmente freddo. Trump ha lavorato attivamente per consolidare questa partnership, anche attraverso il rapporto tra il genero Jared Kushner e l’erede al trono saudita Mohammed bin Salman. Un secondo mandato potrebbe puntare alla normalizzazione tra Israele e l’Arabia Saudita.

Harris, pur collaborando con Riad, potrebbe spingere per un approccio più bilanciato, evitando che la normalizzazione oscuri altre questioni e includendo maggiori pressioni su Riad per una gestione responsabile delle sue influenze, sia interne sia esterne.

Verso un impegno sostenibile o un progressivo disimpegno?

Un nodo fondamentale è la misura dell’impegno che gli Stati Uniti intendono mantenere nella regione. Trump potrebbe continuare la retorica del “pivot” lontano dal Medio Oriente, ma nella pratica favorirebbe interventi mirati per sostenere gli alleati e contenere l’influenza iraniana (e in parte russa e cinese). Harris, invece, potrebbe cercare un impegno sostenibile, bilanciando la necessità di stabilità con l’esigenza di evitare un coinvolgimento prolungato.

L’esito delle elezioni Usa2024 sarà determinante per il Medio Oriente. Il peso politico-diplomatico e militare degli Stati Uniti resta un fattore primario nella regione. Allo stesso tempo, la capacità del Medio Oriente di influenzare la sicurezza globale e processi cruciali, come la transizione energetica, costringerà qualunque presidente, indipendentemente dall’approccio, a non poter ignorare una regione tanto complessa e dinamica.



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