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La vittoria di Trump (non) nuoce alla salute dei dem. Anzi. La versione di Velardi

La vittoria del repubblicano Trump negli Stati Uniti può diventare un’opportunità di profondo ripensamento per i democratici. La risposta ai problemi profondi generati dalla crisi del 2008, da parte delle sinistra, ha avuto come effetto l’erosione dei consensi e la perdita della base elettorale. Adesso, bisogna partire da zero, senza tabù. Conversazione con il direttore de Il Riformista, Claudio Velardi

Non è infrequente che i suoi angoli di osservazione dei fatti, siano originali e scompaginino i piani. Sicuramente anti-convenzionale, marcatamente profondo. A tratti, abrasivo e provocatorio. D’altra parte, la sua è la prospettiva dei delusi che esce dalla dimensione romantica dell’idealismo. Claudio Velardi, direttore de Il Riformista, ma che nella sua vita è stato tante cose, domani ha organizzato un talk (in diretta a partire dalle 12 sui canali social del Riformista) che a una lettura superficiale dei relatori – Claudio Petruccioli, Piero Fassino, Lucia Annunziata, Claudia Mancina e Chicco Testa – potrebbe apparire dal gusto retrò. In realtà, più che un “dove siamo rimasti?” sarà un “dove andremo”. Anche lui, è parte in causa. Perché nel chiedersi che fine faranno i democratici dopo Trump (questo il titolo dell’evento), c’è già una parziale assunzione di responsabilità politico-ideologica. E una consapevolezza, come racconta lo stesso Velardi a Formiche.net, “bisogna ripartire da zero”.

Diciamo che ripartire da zero, a sinistra, è più facile a dirsi che a farsi. Come lo intende lei?

Parto col dire che se avessi la soluzione farei il capo della sinistra non italiana, ma mondiale. Però una cosa è certa. Bisogna partire dalla consapevolezza della crisi strutturale della sinistra per avviare qualsiasi tipo di ragionamento. Non bisogna rimuovere, come spesso si tende a fare. E soprattuto basta tabù.

Tipo quello del ritorno del fascismo?

Un refrain insopportabile.

Il parterre di domani sembra guardarsi più alle spalle che al futuro. 

L’ho fatto apposta. Ho voluto radunare assieme un po’ di persone di sinistra, perché sono interessato a capire quali spunti e suggestioni sapranno indicare. Non è una riunione di ragazzini, ma sono tutte persone che hanno una solida formazione riformista.

Tempi duri, per i riformisti. 

Tutti noi siamo piuttosto frustrati da quello che sta succedendo. Ma bisogna prendere coscienza che siamo in un nuovo mondo. Non da oggi, ma dal 2008. Da allora, la crisi della sinistra a livello nazionale e internazionale è stata irreversibile.

La vittoria di Trump in Usa cosa rappresenta da questo punto di vista?

È il suggello dell’epoca mutata. Tuttavia, ribadisco, le ragioni della sconfitta della sinistra affondano radici molto più indietro nel tempo. Trump è in qualche modo il catalizzatore di un quindicennio di grandi trasformazioni globali, che tutti quanti noi non abbiamo avuto il coraggio di vedere. Ci facevano paura. Ed è per questo che paradossalmente la sua vittoria è una grande opportunità.

Come, scusi?

Sì, è un’opportunità per i riformisti.

E perché mai?

Perché se avesse vinto la Harris probabilmente tutti i riformisti avrebbero continuato nella convinzione che tutti i problemi che hanno portato a una progressiva erosione del consenso da tutte le parti del Mondo, sostanzialmente, non esistessero.

Al di là dell’aspetto finanziario, cos’è accaduto nel 2008?

È stato messo in discussione un intero sistema. Il capitalismo finanziario ha iniziato davvero a scricchiolare e a mostrare i suoi limiti. Di qui inizia la risposta della destra: spesso semplicistica e di stampo protezionistico. Le forze anti sistema hanno prosperato. Abbiamo assistito all’ascesa del nativismo, alla reazione verso la globalizzazione con politiche di chiusura, i dazi e la sbandierata salvaguardia dell’identità nazionale.

Tuttavia la destra è riuscita a essere maggioranza. Per parte sua, cosa ha fatto la sinistra?

Ha sbagliato tutto, nei fatti. Non essendo più capace di rivolgersi alla sua base elettorale di riferimento l’ha completamente lasciata andare. Un po’ si è rifugiata nei movimenti anti-sistema, un po’ si è rifugiata nell’astensionismo e molta si è rivolta a destra.

D’altra parte, poteva mai essere una risposta credibile l’iniezione sfrenata della cultura woke?

Assolutamente no. Ma l’inglobamento della cultura woke nel dna della nuova sinistra è l’epifenomeno di qualcosa di molto più ampio. La sostanziale crisi di identità dei progressisti. Anche e soprattutto in Usa la sinistra ha da tempo anteposto a tutto i diritti civili, abbandonando in toto quelli sociali. Il risultato, non solo Oltreoceano, è stato disastroso.


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