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Al Paese serve un leader capace di fare sintesi. La versione di Parisi

La costruzione di una coalizione a tempo indeterminato unificata da un leader super partes attorno a un progetto di medio termine è l’unica esperienza alla quale si può ancora fare riferimento. Il sistema elettorale attuale non favorisce formazioni centriste, ma nulla è impossibile. Il Pd? Faccia sintesi delle sensibilità. Colloquio con Arturo Parisi, docente di Sociologia politica all’Università di Bologna e per quasi trent’anni alla guida dell’Istituto Cattaneo

La notizia delle dimissioni di Ernesto Maria Ruffini dal vertice dell’Agenzia delle Entrate, i vari retroscena che si sono succeduti nei giorni immediatamente successivi e immediatamente precedenti, hanno rinfocolato l’eterno dibattito sul centro. A tener vivo il confronto, lo scambio di accuse – benché a distanza – fra l’ex premier Romano Prodi e l’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Tuttavia, esiste la necessità di un soggetto che rappresenti un’area più o meno vasta di elettorato che non trova più risposte nell’attuale compagine politica. O, meglio, “c’è bisogno di qualcuno che si carichi del problema della sintesi di tutte le posizioni del campo pensando al governo di tutto il Paese. E questo sia che muova dall’interno del Pd, sia dall’interno degli altri partiti del campo che in cooperazione o competizione si propongano quello che per me è il principale problema comune”. A dirlo, sulle colonne di Formiche.net, è Arturo Parisi, docente titolare della cattedra di Sociologia politica all’Università di Bologna e per quasi trent’anni alla guida dell’Istituto Cattaneo.

Professor Parisi lei ha recentemente sostenuto che quello di cui c’è bisogno perché cresca una alternativa alla attuale maggioranza al governo è una linea e una leadership che porti il Pd e il centrosinistra “al centro” del Paese. A cosa pensa?

Nel discorso politico “centro” è purtroppo uno dei termini più equivoci perché più maltrattati. Anche a costo di apparire pedante mi faccia perciò tornare un momento, ancorché alla buona, sul concetto di “centro”. Sul piano del governo, cioè della proposta e della soluzione dei problemi, “centro” è innanzitutto la decisione e l’orientamento che accontenta o, meglio, scontenta il minor numero di persone possibili. Il punto di equilibrio tra risorse e bisogni, e anche tra l’oggi e il domani. Sul piano della rappresentanza politica sono di “centro” le forze politiche che spesso soltanto in nome di identità e abitudini passate sono portatrici di una proposta moderatrice: un freno a quelle più estreme, tendenzialmente e sempre all’insegna del “meno uno”.

E sul piano della società?

Sul piano della società “centro” è l’area di cittadini che rispetto alle proposte più nette sono collocati su posizioni “sia sia” o “né né”: di norma l’area più vasta, ma allo stesso tempo variabile a seconda che questi cittadini siano respinti o attratti dalle posizioni estreme. Respinti o sospinti, non tanto per i loro precedenti orientamenti e atteggiamenti ma per il loro oggettivo coinvolgimento nei cambiamenti in corso: per la natura e l’intensità di questi cambiamenti. Poiché io sono tra quelli convinti che le società dell’occidente sono attraversate da processi globali sempre più intensi che vanno accentuando le disuguaglianze, travolgendo le sicurezze dei passati riferimenti culturali e sociali e quindi alimentando la paura del futuro, la prima condizione è che la linea e la guida si faccia carico di queste paure: innanzitutto delle paure reali della maggioranza interna proprio campo finora simpatetica o almeno non pregiudizialmente ostile al centrosinistra, e non invece privilegiare, come sembra ora accadere, i desideri di minoranze che legittimamente cercano con impazienza il futuro saltando tuttavia il presente dimentichi del peso del passato.

Ma qual è il bacino da cui attingere questa per l’affermazione di una linea e di una leadership di questo genere?

Di certo non guarderei per primi a quanti, figli di stagione lontana, pensano che il centro della società sia ancora quella maggioranza più o meno silenziosa, restata senza rappresentanza che attende soltanto che qualcuno dia voce al suo silenzio. Prima ci rendiamo conto che la società è attraversata da spinte centrifughe e meglio è. È per questo che nella maggior parte dei Paesi dell’Occidente che sono andati al voto sta vincendo la destra. Compito del centrosinistra non è quello di rispondere credibilmente alle spinte reazionarie della destra con una linea altrettanto centrifuga di forza eguale e di segno contrario, ma quello di attivare una dinamica centripeta sostenendo nella realtà, non semplicemente avanzando nella propaganda, provvedimenti che si facciano carico di queste paure e dí questi problemi. La linea alla quale penso, seppure fedele al suo ruolo di opposizione, deve sempre farsi guidare in modo evidente dalla domanda: cosa farei se io oggi fossi al governo, cosa farò quando al governo ritornerò.

Ma lei pensa a persone come Ruffini anche se lui ha smentito l’ipotesi di un suo ruolo attivo in politica?

Anche se le smentite suonano spesso come conferme, una cosa è sicura: Ruffini ha lasciato la Tribuna Autorità, e, seppure da cittadino, ha alzato la mano e ha detto “presente”. Quello che interessa dentro il discorso fatto finora sul centro è la tendenza a leggere questo “presente” non alla luce di proposte che riguardano il futuro comune ma al passato remoto del suo cognome piuttosto che a quello prossimo del suo nome, che è associato ad un percorso qualificante e a una esperienza autorevole in sé. Questo perché si continua a ragionare sulla necessità di un partito minore di centro più o meno cattolico, cioè a dire post-dc, che sopperisca ai limiti quantitativi del Pd dato oramai per travolto da una deriva di sinistra. Quello di cui, a mio parere c’è bisogno è invece di qualcuno che si carichi del problema della sintesi di tutte le posizioni del campo pensando al governo di tutto il Paese. E questo sia che muova dall’interno del Pd, sia dall’interno degli altri partiti del campo che in cooperazione o competizione si propongano quello che per me è il principale problema comune.

Il modello Ulivo, di cui lei è stato uno dei fautori, potrebbe essere proponibile in un contesto come quello attuale?

La costruzione di una coalizione a tempo indeterminato unificata da un leader super partes attorno a un progetto di medio termine è l’unica esperienza alla quale si può ancora fare riferimento. Non quella del modello da “Quercia e cespugli” con partito dominante. E neppure quella di un partito più o meno autosufficiente che, salvo eccezioni, punti a inglobare dentro di sé tutto il campo. Non parliamo della competizione tra partiti con rinvio della composizione al dopo elezioni che regola i separati in casa del centrodestra.

Ma non è difficilmente praticabile considerando la legge elettorale attuale?

L’ha detto lei. Perso per strada il collegio uninominale e abbandonate nei fatti le primarie di coalizione per la scelta del leader, che Conte sembra ora avere scoperto, dopo averle contrastate dappertutto a cominciare dalla Sardegna, tutto è diventato difficile. Ma difficile non significa impossibile. Basta condividere la consapevolezza di come si è finiti qui e cooperare per uscirne.

Elly Schlein ha dato un taglio molto a sinistra al Pd. L’ipotesi di una correzione di tiro è ragionevole o, dal suo punto di vista, la strada è tracciata?

Quale sia il taglio dato al Pd da Elly Schlein è difficile da dire. Se centro è da sempre una parola equivoca sinistra lo sta diventando ogni giorno di più. Diciamo semplicemente: un taglio fortemente connotato, cioè a dire anche dentro il centrosinistra di parte, esclusivo ed escludente. La mia convinzione è che un Pd troppo connotato non basti: non perché non ha la quantità sufficiente ma perché non ha la qualità necessaria. E la qualità della quale il Pd necessita lo chiama a portare a sintesi le reazioni al cambiamento dello strato medio che va calando con le tentazioni degli strati estremi che vanno crescendo. La stessa qualità richiesta anche se in forme diverse a tutte le componenti della coalizione. Di certo l’idea che ognuno accentui i connotati del proprio appello rinviando la sintesi a dopo le elezioni ha il fiato corto. Una illusione che si paga già nella raccolta del consenso, non solo al governo una volta raccolto. Se la politica è vita e non finzione, “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei” è un proverbio che presenta molto presto il suo conto.


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