Azione israeliana contro le armi presenti in Siria. Lo Stato ebraico continua nella strategia di esternalizzare la propria sicurezza nazionale
Nella notte, sulla costa mediterranea siriana è stato registrato un evento sismico di magnitudo 3 dai sensori locali, ma non è stato un terremoto: a scatenare la scossa è stata una serie di bombardamenti israeliani su un deposito di munizioni nell’area di Tartus — nota perché il porto della città è anche una base navale russa, che non è stata interessata dall’attacco.
Israele ha intensificato significativamente le sue operazioni militari in Siria dopo la caduta di Bashar al-Assad, con oltre 60 attacchi aerei effettuati nelle ultime 12 ore, colpendo infrastrutture militari, depositi di munizioni e sistemi di difesa aerea. Questi raid rappresentano l’ennesimo capitolo di una strategia consolidata da parte di Tel Aviv volta a neutralizzare potenziali minacce ai propri confini, esternalizzando la propria sicurezza nazionale, in questo caso affrontando le complessità di un contesto in cui la nuova, incognita, leadership siriana sta cercando di stabilizzare un Paese allo stremo dopo anni di guerra civile.
Obiettivi strategici
Le esplosioni sono diventate quasi una routine in questi giorni nei dintorni di Damasco, raccontano fonti locali contattate via X da Formiche.net. “I bombardamenti israeliani fanno parte di questa nuova normalità”, scrive una di loro riferendosi alla fase post-Assad a cui i siriani si stanno ancora adattando.
Parallelamente, nella regione sud-orientale di Quneitra, al confine con le Alture del Golan, le forze israeliane hanno distrutto infrastrutture cruciali, tra cui strade, linee elettriche e reti idriche, dopo che i residenti locali si erano rifiutati di evacuare l’area. Fonti locali riportano che carri armati israeliani si trovano ora in diverse cittadine del sud-ovest siriano, approfondendo ulteriormente la loro presenza nella regione occupata del Golan.
L’obiettivo è una difesa preventiva di dimensione esistenziale. Israele, dopo il mostruoso attacco del 10/7, è ormai totalmente indirizzata a proteggere in qualsiasi modo la sua sicurezza nazionale. In questo caso essa coincide con l’evitare che le armi del regime assadista finiscano in mano ai rivoluzionari che hanno preso il potere, perché sono un gruppo eterogeneo di forze tendenzialmente islamiste che considerano da sempre lo stato ebraico inesistente e Israele un nemico. Ora c’è da capire se accetteranno una forma di gestione pragmatica, abbandonando certe visioni ideologiche: ma nel dubbio, gli israeliani si muovono d’anticipo.
Indipendentemente da chi assumerà il controllo di un futuro governo a Damasco, Israele ha sfruttato il vuoto di potere creatosi dopo la caduta di Assad per garantire che la Siria non possa ricostruire una capacità militare difensiva significativa. L’amministrazione Biden, critica della gestione israeliana dell’invasione di Gaza e della guerra che circonda lo stato ebraico, avalla la narrativa secondo cui tali azioni sono misure preventive di legittima difesa israeliana contro potenziali minacce provenienti dalla Siria.
C’è un problema di doppi standard che esce dalle critiche che arrivano dai Paesi del Golfo, per esempio. La reazione all’invasione russa dell’Ucraina è l’esempio più acido di questa situazione, secondo una fonte vicina al governo emiratino, che ragiona in forma riservata.
Il trasferimento delle truppe israeliane nella zona cuscinetto del Golan, sotto controllo dell’Onu dal 1974, è stato definito dalle Nazioni Unite come una violazione dell’accordo di armistizio. Nel frattempo, l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (SOHR), un’organizzazione con sede nel Regno Unito che analizza con buona affidabilità il conflitto siriano da sempre, ha confermato che 61 missili israeliani hanno colpito siti militari strategici in meno di cinque ore, interessando le regioni di Homs, Deraa, Suwayda e i monti del Qalamoun nei pressi di Damasco, nonché le difese aeree dell’aeroporto di Hama. Non è stato ancora definito il valore dei danni collaterali, anche in termini di persone colpite accidentalmente.
Narrazioni e interessi
Ahmed al-Sharaa, leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) più noto come Abu Mohammed al-Jolani, attualmente capo dell’amministrazione siriana post-Assad, ha condannato le incursioni israeliane, definendole un’escalation ingiustificata. “Gli israeliani hanno chiaramente oltrepassato la linea di disimpegno, minacciando una nuova escalation nella regione”, ha detto. Tuttavia, il leader ha enfatizzato che la Siria non è nella posizione di aprire un nuovo fronte militare. “La Siria è esausta dopo anni di guerra e conflitto. La nostra priorità in questa fase è la ricostruzione e la stabilità del Paese”.
In un chiaro messaggio di pacificazione, al-Sharaa ha promesso di smantellare tutte le fazioni armate presenti sul territorio, affermando che “nessuna arma esisterà al di fuori dell’autorità dello stato siriano”. Inoltre, il leader dei rivoluzionari aveva già detto di essere pronto a inquadrare le armi chimiche assediste all’interno del sistema di gestione della Comunità internazionale — altro messaggio di credibilità tra quelli che l’attuale leadership siriana sta dando al resto del mondo, in primis Israele (che aveva colpito alcuni siti chimici già nelle prime ore dopo la caduta di Bashar al-Assad).
D’altra parte, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha ribadito che Israele “non ha alcun interesse a un conflitto con la Siria”, giustificando i raid come misure preventive volte a neutralizzare potenziali minacce e a impedire il consolidamento di gruppi ostili vicino ai confini israeliani.
Un punto cruciale è rappresentato dall’atteggiamento della nuova leadership siriana. Il fatto che al-Sharaa abbia dichiarato esplicitamente di non voler combattere Israele rappresenta un cambiamento epocale. Per decenni, la Siria è stata uno degli stati centrali nella resistenza contro Israele, che almeno dal 2012 sta portando avanti questo genere di attacchi — finora indirizzati contro la catena di approvvigionamento iraniana ai gruppi dell’Asse della Resistenza, il network regionale di milizie sciite (che hanno mentalità anti-occidentale e anti-israeliana).
Il contesto diplomatico internazionale
La crescente tensione ha spinto gli attori internazionali a intensificare i contatti diplomatici. Gli Stati Uniti hanno confermato di aver stabilito comunicazioni con HTS, nonostante il gruppo sia stato designato come organizzazione terroristica da Washington nel 2018. Il Segretario di Stato Antony Blinken ha ammesso: “Abbiamo avuto contatti con HTS e con altre parti.”
Blinken ha partecipato in questi giorni a colloqui ad Aqaba, in Giordania, insieme a diplomatici di stati arabi e della Turchia. In una dichiarazione congiunta, è stato ribadito l’appello a una transizione guidata dalla Siria stessa, con l’obiettivo di formare un governo inclusivo e rispettoso dei diritti umani.
Nel frattempo, l’inviato Onu per la Siria, Geir Pedersen, ha visitato Damasco, esortando la comunità internazionale a revocare le sanzioni contro i gruppi di opposizione e a garantire un aumento immediato degli aiuti umanitari al paese.
Il vuoto lasciato dalla caduta del regime di Assad pone interrogativi cruciali sulla sicurezza regionale e sulle dinamiche geopolitiche future, che passeranno anche dalla nuova leadership a Damasco. La Siria, indebolita e stremata, si trova ora di fronte alla duplice sfida della ricostruzione interna e della gestione di pressioni esterne, con Israele, Stati Uniti e attori regionali che osservano con attenzione(e proattività) l’evoluzione della situazione.