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Ad Atreju una Meloni “di lotta”. Il Pd? Più sindaci e meno establishment. Parla Sorice

Per Giorgia Meloni essere “di lotta e di governo” continua a garantirle un ottimo appeal sull’elettorato. Mentre il Pd “deve consolidare la leadership della segretaria e lavorare con gli amministratori”. Intervista di Formiche.net al sociologo e docente de La Sapienza, Michele Sorice

Giorgia Meloni, dal palco della “sua” Atreju parla più da leader di partito che da presidente del Consiglio dei ministri. Un discorso militante, in cui non vengono risparmiate critiche a tanti dei suoi avversari. Da Elly Schlein a Romano Prodi. Il suo essere “di lotta e di governo” le continua a garantire un ottimo appeal sull’elettorato. Mentre il Pd “deve consolidare la leadership della segretaria e lavorare con gli amministratori”. A dirlo a Formiche.net è il sociologo e docente de La Sapienza, Michele Sorice.

Il passaggio su Romano Prodi ha destato diverse reazioni. È un modo per sottolineare la possibile insidia rappresentata dall’ex premier?

Meloni nel suo intervento ha citato tantissimi avversari, non lesinando attacchi. Mi sembra una tattica molto comune nella comunicazione politica, che ha utilizzato anche la presidente del Consiglio. Escludo che Prodi possa essere un’insidia, benché abbia alcune caratteristiche peculiari. Ma è più che altro un padre nobile della sinistra, non ha un partito suo.

Il registro linguistico e tematico di Meloni è stato piuttosto netto, rispetto a quello più patinato impiegato nelle occasioni ufficiali. Un modo per consolidare il suo elettorato?

È abbastanza comune la variazione di registro linguistico e tematico da parte dei leader, in particolare di area conservatrice. Meloni, così come Trump negli Usa, sono stati molto abili in questa operazione. D’altra parte, il richiamo istituzionale serve a “tranquillizzare” una certa fetta di elettorato non propriamente di area o non solo di area. Parallelamente, il gergo “di lotta” serve a rafforzare le fila del proprio elettorato. Il risultato, comunque, in termini di consenso, è positivo perché si catalizzano varie sensibilità.

Carsicamente riemerge il tema della collocazione del centro. Il partito di Meloni è riuscito nell’impresa di raccogliere – se non tutto, una parte – di questo bacino?

Il premier non è di centro e neanche lo vuole essere. Per storia personale e politiche messe in atto. Il dibattito sul centro sconta, a mio modo di vedere, due criticità di fondo. La prima è quella di non considerare i fenomeni sociali e le trasformazioni che caratterizzano la società odierna. La seconda è legata al sistema elettorale.

Siamo destinati inesorabilmente al bipolarismo?

Un centro autonomo, con l’attuale sistema elettorale, non è tecnicamente possibile. Con questa legge elettorale, di fatto è necessario fare alleanze per governare. Ed è per questo che sostengo il fatto che ci troviamo in un bipolarismo di fatto.

In questo contesto è più complesso, per lo schieramento di centrosinistra, elaborare un’alternativa?

Dipende quanto l’aggregazione di forze riesce a essere, pur nell’eterogeneità, attrattivo per tutte le forze in campo. Compresi i centristi. Anche se, è evidente come sia il Pd il partito attorno al quale si può eventualmente elaborare una proposta alternativa al governo. Con alcuni correttivi da porre.

Cosa deve fare il Pd per tornare alla vocazione maggioritaria di veltroniana memoria?

Essere capace di guidare una coalizione composita, con sensibilità molto diverse al suo interno. Missione, questa, molto ardua di per sé. Assieme a questo, deve rafforzare la leadership di Elly Schlein ma lavorando con gli amministratori e lasciando perdere le faide interne dell’establishment che hanno poca presa nell’elettorato.


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