Mentre le cancellerie europee si preparano a ricevere le richieste che verranno fatte da Donald Trump sulle spese militari, l’esigenza di un’accelerazione sulla difesa non è ancora pienamente condivisa tra gli Stati, divisi sui metodi con cui finanziare il riarmo europeo. Su queste titubanze pendono l’instabilità franco-tedesca, la linea dura della Polonia e le potenzialità dell’Italia nel definire il futuro del Vecchio continente
La direzione sembra ormai indelebilmente tracciata: l’Europa dovrà aumentare le sue spese militari. A non essere ancora chiaro è però il percorso che dovrebbe portare gli Stati europei a ricostituire il loro potenziale di deterrenza. L’invasione russa dell’Ucraina, la stagnazione dei trattati internazionali sul disarmo, l’emergere esponenziale di crisi securitarie multilivello e, da ultimo, l’elezione di Donald Trump per un secondo mandato pongono l’Europa davanti alla necessità di dotarsi nuovamente di un dispositivo militare credibile, in grado di sostenere una politica estera comune e di assumersi maggiori responsabilità in seno all’Alleanza Atlantica.
Se questi assunti, già in precedenza, erano coerenti con l’obiettivo del 2% del Pil investito nella Difesa, oggi questa soglia sembra inevitabilmente destinata a essere rivista al rialzo. Lo aveva già anticipato Mark Rutte, segretario generale della Nato, quando, appena insediato, aveva parlato della necessità di trasformare il tetto del 2% in un “minimum standard”. L’ipotesi che al momento sembra andare per la maggiore indicherebbe un aumento fino al 3% entro il 2030, con una tappa intermedia al 2,5% nei prossimi anni. Sui numeri non vi è ancora certezza, lo stesso Rutte non si sbilancia e attende di fare da mediatore tra le richieste della nuova amministrazione Usa e gli Alleati europei. Tuttavia il rialzo è pressoché certo, pena una riduzione dell’impegno statunitense nel Vecchio continente, che lascerebbe l’Europa virtualmente indifesa nei confronti di un attacco da parte della Russia. Questo scenario è particolarmente temuto dagli Stati orientali, che rischierebbero di trovarsi da soli, e da Bruxelles, che teme per l’esistenza stessa dell’Unione. Sembra dunque che gli europei, già alle prese con le conseguenze della pandemia e la crisi energetica, non potranno esimersi ulteriormente da un rialzo sensibile delle spese militari. Il punto è: in che modo?
Le vie della Difesa (non) sono infinite
Stanti la necessità di riqualificare le prerogative difensive dell’Europa e l’inevitabilità di una spesa a debito per finanziarle, le vie percorribili sono sostanzialmente due. Da un lato, uno sforzo comunitario, imperniato su un debito comune europeo (i famosi Eurobond di pandemica memoria) e su un coordinamento apicale da parte delle istituzioni Ue; dall’altro, indebitamenti nazionali indirizzati da linee guida concordate. La prima ipotesi vede una riproposizione delle procedure che portarono al Next Generation Eu e alla campagna vaccinale, solo su una scala ben più importante, sia sul piano finanziario sia su quello politico. La seconda prefigura un aumento in ordine sparso, dipendente sia dalle diverse sensibilità nazionali sia dalle regole del Patto di stabilità, che al momento precludono un ulteriore indebitamento.
Su quest’ultima ipotesi è tornato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, che segnala la necessità di ridiscutere i parametri europei, appartenenti a un’epoca diversa e ormai finita, per escludere le spese militari dai vincoli sul deficit. Secondo il ministro, senza questo allentamento delle politiche di austerità finanziaria, gli Stati rischiano di dover fare tagli drastici a settori come sanità, previdenza sociale e istruzione. Simili tagli, benché inevitabili senza una revisione delle regole europee, potrebbero pregiudicare sensibilmente sia la tenuta sociale del Paese sia l’effettivo raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Lorenzo Guerini, presidente del Copasir, sposa maggiormente l’ipotesi Eurobond, che punta a un’azione e a una spesa coordinate dall’Unione europea stessa, piuttosto che dai singoli Stati. Entrambe le prospettive recano con loro vantaggi e svantaggi. Se da un lato un coordinamento (e un finanziamento) comune promette di ridurre gli sprechi e di favorire l’armonizzazione di industrie e Forze armate, dall’altro implicherebbe anche un’esclusione automatica di quei Paesi che, pur facendo parte della Nato, non sono membri dell’Ue. Tra questi rientrerebbe il Regno Unito, il cui contributo all’architettura di sicurezza dell’Europa non può essere derubricato facilmente, né sul piano militare né su quello politico. D’altra parte, perseguire un incremento in ordine sparso rischia di aumentare ulteriormente la già critica frammentarietà del settore della Difesa in Europa e creare nuove faglie intra-europee tra chi spende di più e chi di meno, indipendentemente dalle ragioni di tali disavanzi. A pesare su questa già difficile decisione circa la via da seguire vi è poi l’instabilità interna di Francia e Germania, l’una paralizzata dalla debolezza interna di Emmanuel Macron e l’altra avviata verso un appuntamento elettorale carico di incognite.
La linea polacca
Tra tutti i membri della Nato e dell’Unione europea, la Polonia e i Paesi baltici sono quelli che più di tutti temono un attacco russo nel prossimo futuro. Ne hanno ben donde, avendo osservato per quasi tre anni il succedersi degli eventi in Ucraina, appena al di là dei propri confini che, geografia insegna, senza la Nato sarebbero poco più che linee tracciate sulla mappa. Per Varsavia la minaccia russa è concreta e, se nel 2022 la Polonia spendeva il 2,4% del Pil (corrispondente a circa 14 miliardi di euro), nel 2023 ha raggiunto il 3,9% e il 4,5% nel 2024, diventando lo Stato Alleato che spende maggiormente per la Difesa in rapporto al bilancio interno. Adesso, la Polonia si appresta a assumere la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea e, sull’onda del motto “Security, Europe!”, Donald Tusk, primo ministro polacco, punta a sbrogliare la matassa della titubanza europea sui finanziamenti alla Difesa.
Anche il ministro delle finanze, Andrzej Domanski, ha ribadito che, quale che sia la via da percorrere, Varsavia punta a raggiungere una decisione condivisa entro il primo semestre del 2025, prima delle elezioni presidenziali previste per il prossimo maggio. Domanski è duro, ma anche realista, nel criticare l’attendismo europeo, che sembra inspiegabilmente convinto che, a un certo punto, le crisi si risolveranno e si ritornerà al “business as usual”, relegando nuovamente il tema della Difesa a un capitolo di spesa secondario e a una pura questione di competitività economica. Ad oggi, tale prospettiva appare irrealistica. In questa fase è difficile fare previsioni, viste le molte incognite poste dall’instabilità franco-tedesca e dall’attesa per l’insediamento di Trump. In questo contesto, la stabilità interna dell’Italia, terza economia e demografia del continente, può rappresentare una grande opportunità per ridefinire la mentalità e le ambizioni europee in materia di Difesa. Tuttavia, i tempi sono sempre più ridotti e l’enfasi del motto scelto dalla Polonia ben rappresenta l’urgenza del momento.