Il fenomeno dell’emigrazione, interna ed esterna, continua ad essere una costante nella società del nostro Paese. E, per quanto difficile, ci sono modi per fermarla. Il commento di Stefano Monti
“Perché emigrare?”. Questo è il titolo di una delle slide presenti nella presentazione del Rapporto Svimez 2024: L’economia e la Società del Mezzogiorno.
La slide fornisce da sola una prima risposta, che va poi inquadrata in una visione più ampia per essere realmente compresa.
Tale prima risposta è chiaramente la dimensione retributiva. Con riferimento a quest’unica dimensione, fatta 100 la retribuzione lorda per dipendente del 2013, oggi l’Italia è al 96, il mezzogiorno è al 92.
Dato che trova un potenziale riflesso nel trend legato alla concreta emigrazione di persone con alte competenze, che si fonda su due principali dimensioni, l’emigrazione interna, quella che dal sud vede i giovani spostarsi verso il nord, e quella esterna, che invece misura il numero di italiani che invece si sposta verso l’estero.
Tale spostamento avviene ormai con una certa costanza anche prima della laurea. In sintesi, negli ultimi 13 anni, il numero di laureati con residenza al Sud è aumentato, ma è invece diminuito al numero di laureati presso gli Atenei del Sud.
Si tratta di un dato potenzialmente strutturale, se si guarda alle altre statistiche, quelle che vedono ridursi il numero di giovani del “mezzogiorno” che decidono di iscriversi all’Università.
Dati che, uniti, possono anche essere interpretati come una scelta sulla base delle necessità, in cui, a fronte della bassa efficacia in termini lavorativi futuri attribuita all’Università, e all’esigenza di disporre di un reddito per poter sopravvivere, molti giovani del Sud si pongano come scelta l’università al Nord o il lavoro al Sud. Condizione che, chiaramente, crea i presupposti per ulteriori disuguaglianze non solo tra nord e sud, ma anche all’interno del perimetro della medesima regione.
In questo scenario, le prospettive future in termini demografici introducono ulteriori elementi di incertezza, con una stima di una sempre maggiore componente demografica senior, condizione che non solo coinvolge dimensioni quantitative dell’esistenza, come una minore presenza di bambini e le conseguenze sul sistema scolastico, ma anche in dimensioni qualitative, con la costruzione di un ambiente di vita in cui i giovani, ormai minoranza assoluta, possano sentirsi costretti.
Le strade da percorrere per evitare queste implicazioni sono molteplici, e Svimez ne fa una rassegna, promuovendo delle linee che pur se interessanti sotto il profilo tecnico (è il caso ad esempio dell’immigrazione come strumento di ripopolamento), hanno implicazioni politiche che si distanziano in modo considerevole dall’attuale orientamento di Governo.
Non mancano tuttavia azioni che potrebbero essere percorse in modo efficace: è quella, ad esempio, che prevede l’utilizzo dei fondi per la coesione anche per finanziare servizi di rilevante utilità sociale.
Altre ancora, invece, pur sempre corrette sotto il profilo tecnico, potrebbero trovare una distorta applicazione, come la previsione di obiettivi target quantitativi: questo perché, in primo luogo siamo pur sempre un Paese alla ricerca di Lep (livelli essenziali delle prestazioni), ma anche perché probabilmente mancano nel nostro Paese delle competenze in grado di definire degli obiettivi quantitativi che oltre ad essere misurabili, siano anche una reale traduzione del concetto di valore pubblico generato.
Tale valore, per dirla in modo semplicistico, non guarda tanto a quanti soldi siano stati investiti per realizzare un’opera pubblica (un esempio, può essere la costruzione di un centro culturale all’interno di una periferia urbana), ma si concentra piuttosto sull’effettiva efficacia in termini di servizio o di risultato che tale centro culturale esprime per la cittadinanza.
O, detto in altri termini, se ad oggi la maggior parte delle valutazioni misurano quanti soldi siano stati effettivamente spesi per costruire il centro culturale, pochissime guardano se in quella periferia fossero già presenti centri culturali esistenti, ed è chiaro che costruire dieci centri culturali in una periferia urbana da un lato costituisca un’operazione di indebitamento di medio periodo (essendo difficilmente sostenibile), e dall’altro rappresenti uno “spreco”, perché magari gli altri nove centri bastavano, e invece era un po’ più necessario aprire uno sportello di aiuto per gli anziani.
Altre dimensioni vengono affrontate dal Rapporto, che sono in ogni caso degne di nota: è il caso, ad esempio, della potenza industriale del mezzogiorno, condizione che ben può essere associata anche alla costruzione di percorsi di sviluppo della demografia d’impresa.
Soprattutto se si tiene conto della sempre maggiore rilevanza che la cultura può assumere in termini economici, se allontanata dal concetto di cultura come specchietto per le allodole-turistiche.
L’asset storico, artistico, archeologico, architettonico, e culturale presente nel nostro mezzogiorno può anzi essere una grande opportunità di sviluppo nel momento in cui ci si discosta dal binomio cultura-turismo, e si inizia a valutare il binomio cultura-industria.
Ciò che già da molti anni si sta cercando di dimostrare, è che la cultura può rappresentare un elemento di crescita a prescindere dai soldini che gli americani possono spendere nei ristoranti locali. La cultura è un fattore di sviluppo umano, individuale e collettivo, e in quanto tale, può generare impatti che assumono le forme più disparate: in alcuni casi, ad esempio, la cultura può da sola bastare a creare un posizionamento strategico di località che altrimenti difficilmente potrebbero raggiungere la notorietà presso il grande pubblico (i bronzi di…), ma può altresì essere introdotta all’interno del processo di creazione d’azienda come un fattore distintivo di successo.
Non tutti gli storici dell’arte devono per forza fare i consulenti di una società di comunicazione. Alcuni, possono altresì entrare in processi produttivi innovativi e tecnologici, e fornire una visione di un prodotto, o di un servizio, con una prospettiva che si distanzia da quella che è propria degli ingegneri informatici o degli esperti di finanza.
Si tratta di un’eterogeneità che nei Paesi più avanzati è sempre più richiesta, e che l’Italia potrebbe accogliere senza molte difficoltà, tenendo altresì conto degli effetti culturali che tale azione potrebbe generare, come, ad esempio, il senso identitario trasmesso dai propri territori d’origine.
Un paesino di cento abitanti, di cui dieci giovani, potrà essere molto meno soggetto a spopolamento se quei dieci ragazzi, per motivi familiari ma anche economici e culturali, percepiscono le proprie esistenze come fortemente radicate al territorio in cui sono cresciuti.
Non si tratta di una vanità accademica: un economista può essere facilmente in grado di dare un valore numerico a tutto (direttamente o attraverso proxy), ma molto spesso, nella nostra vita personale, ci sono scelte che si compiono per motivi differenti da quelli che le teorie economiche vorrebbero.
Oggi l’emigrazione può essere intesa come un “votare con i piedi”, e vale a dire persone che dimostrano la propria sfiducia nei riguardi di alcuni territori semplicemente spostandosi da tali territori. Ma è anche vero che diviene difficile votare con i piedi quando, alla visione utilitaristica dell’esistenza, si aggiungono fattori immateriali come l’attaccamento alla famiglia, al territorio, al proprio accento e al proprio dialetto.
Emigrare è forse la scelta più efficiente ed efficace che molti ragazzi dei territori interni dovrebbero fare. Ma non tutto, nella vita, si misura in termini di redditività del capitale investito.
Sarebbe forse il caso di iniziare a considerare quali siano le esigenze di coloro che decidono di restare. Forse, non sono così soli come si tende a credere.