Il processo di istituzionalizzazione del Movimento 5 Stelle si è compiuto con la cacciata di Grillo. Conte ha perseguito il suo obiettivo, ma ora se il fondatore volesse fondare qualcosa di parallelo potrebbe essere un problema. Il Pd deve fare il salto di qualità se vuole essere competitivo. Conversazione con Mattia Diletti, docente al dipartimento di Comunicazione e Ricerca sociale alla Sapienza
Il braccio di ferro, alla fine, l’ha vinto l’ex premier Giuseppe Conte. Gli iscritti del Movimento 5 Stelle, in gran numero, hanno votato molto chiaramente: il fondatore, Beppe Grillo, è fuori. In questo modo, la Costituente assume una valenza realmente palingenetica. Il Movimento 5 Stelle cambia proprio pelle e, con questo ultimo atto, compie il percorso di “istituzionalizzazione”. Adesso, commenta su Formiche.net Mattia Diletti, docente al dipartimento di Comunicazione e Ricerca sociale alla Sapienza, “l’incognita più grande è legata a ciò che vorrà fare Grillo”.
Pensa che abbia in mente qualche azione di disturbo?
Diciamo che al momento ho letto solamente allusioni in questo senso, ma non saprei formulate sulla base di quali riscontri. Certamente se Grillo maturasse la volontà di realizzare qualcosa di parallelo al Movimento, da cui è stato defenestrato, potrebbe rivelarsi un bel problema.
Come siamo arrivati al Movimento che “mangia” il suo fondatore?
Partiamo col dire che, da anni, è venuto meno il motore ideologico del Movimento ossia Gianroberto Casaleggio. Grillo sconta la sua assenza dalla scena politica e Conte ha perseguito pervicacemente l’obiettivo di creare, nei fatti, un movimento a sua immagine e somiglianza. Nel quale, tuttavia, permane un grande problema legato alla classe dirigente.
Se l’istituzionalizzazione la diamo per assodata, resta da sciogliere il nodo identitario. E, francamente, pensare che venga fatto dal campione di “camaleontismo” politico per eccellenza, è un po’ complesso.
L’identità del Movimento 5 Stelle rimarrà quella di Conte, che proseguirà la strada del camaleontismo politico come sempre ha fatto. Resterà anche la contraddizione di un radicamento alle origini anti-sistema, che diventerà ancor più evidente dopo questa svolta istituzionale. L’unica cosa certa è l’essersi schierato nel campo del centrosinistra anche se non senza qualche problema politico in particolare per gli alleati.
Il problema è per il Pd?
La posizione dei dem è complessa. Dopo lo scacco della Liguria, il Pd dimostra di essere un partito che – sia a livello nazionale che sui territori – guadagna consensi e posizioni. La leadership di Schlein non è in discussione anche se non è sufficientemente forte da rivaleggiare con la premier Giorgia Meloni. Per cui, per ipotizzare qualcosa di realmente competitivo in termini di proposta alternativa di governo, servirebbe un salto di qualità.
Ma la svolta contiana porterà beneficio al campo largo?
Più che altro non c’è una reale alternativa. Il Pd, per quanto forte, è impossibile che riesca a maturare una proposta politica in solitaria. A maggior ragione in un contesto politico così fortemente polarizzato e con questo sistema elettorale. I dem devono lavorare “per due” anche perché fronteggiano una coalizione che – per quanto appaia divisa – in realtà si compatta e riesce sempre a trovare una sintesi. Beneficiando, peraltro, di un “tesoretto elettorale” molto importante.
Resta, tra le tante, l’incognita centrista. Cosa succederà a quelle latitudini?
Penso che il centro sia destinato, come abbiamo visto, a dividersi in tanti partiti personali differenti e ad allearsi un po’ a geometria variabile. L’attuale sistema elettorale, comunque, non favorisce la nascita di poli centristi. Per cui, la prossima sfida per le Politiche, sarà tutta al femminile.