Attenzione massima al commercio internazionale; ruolo attivo dei presidi italiani all’estero; interventi specifici, come il Piano Mattei per l’Africa; centralità del Mediterraneo e rapporti di maggior collaborazione con i Paesi produttori di petrolio, con l’idea di trasformare l’Italia nell’hub energetico (petrolio e gas) di tutto il continente. Insomma, l’Italia c’è e ci vuole essere. La speranza è che ci sia anche l’Europa: altra grande partita aperta per realizzare quelle riforme non più procrastinabili. Il commento di Gianfranco Polillo
Quattro giorni per riorganizzare e rafforzare la presenza italiana sui mercati internazionali. Queste almeno le intenzioni di Antonio Tajani, nella sua qualità di ministro degli esteri e responsabile del commercio internazionale. Ottima idea: che riprende un vecchio spunto di Silvio Berlusconi. Quella sua intenzione di far sì che le ambasciate italiane non fossero solo luoghi burocratici o presidi della politica italiana, ma anche strutture in grado di contribuire allo sviluppo delle relazioni economiche e finanziarie del Paese. Puro mercantilismo? Chi ragiona così è rimasto all’ottocento ed ai tempi delle feluche. A diffondere l’immagine nel mondo dell’american way ha contribuito indubbiamente la storia complessiva di quel Paese. Ma nell’immaginario collettivo, i jeans o la Coca-cola non sono stati da meno. Cosa che si è ripetuta con il “made in Italy”: marchio conosciuto ed ovunque apprezzato. E se oggi Giorgia Meloni è considerata il leader europeo più affidabile, questo si deve indubbiamente alla sua personalità – checché ne dica la sinistra – ma anche ad un Paese, che produce ed esporta. E sui mercati internazionali ha un brand riconosciuto.
Raggiungere quell’obbiettivo, non è stato. Al contrario: i sacrifici sostenuti sono stati intensi ed ancora oggi si riflettono sulla situazione sociale del Paese. Che richiama soprattutto alla responsabilità delle organizzazioni sindacali. Di fronte alla stretta europea sulla dinamica della spesa pubblica, dovrebbe essere la contrattazione a fare la differenza, a proteggere il lavoro, imponendo una più equa redistribuzione dei guadagni di produttività. Ma così, purtroppo, non è stato. Ed allora i successi conseguiti dal Paese si sono trasformati solo in una semplice evidenza statistica. Nel 2012, secondo Eurostat, il debito dell’Italia nei confronti dell’estero (situazione patrimoniale netta) era pari al 24,6% del Pil. Frutto di un eccesso di importazioni, ottenute utilizzando il credito che gli esportatori degli altri Paesi erano disposi a concedere. L’Italia, vivendo al di sopra delle proprie possibilità, si comportava come quei nobili decaduti dell’800 che, per sopravvivere, ipotecavano il loro futuro. Gli ultimi dati (secondo trimestre del 2024) mostrano, invece, l’esatto contrario: un attivo sull’estero (posizione creditoria) di oltre 225 miliardi di euro, pari ad oltre il 10 per cento del Pil. Dato quest’ultimo che ha sollevato le meraviglia dello stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Che, intervenendo, non ha potuto fare a meno di sottolinearne la portata.
Tutto bene, allora? Purtroppo non è così. L’intero Pianeta sta vivendo un momento più che difficile. Non sono solo le guerre ad impensierire. Ma la fine di un’epoca: quella della globalizzazione felice. E l’aprirsi di una fase segnata dall’incertezza, che si riflette sia sul piano quantitativo, con una riduzione del tasso di crescita complessivo, sia su quello qualitativo; che è l’elemento di maggior preoccupazione. Si è dovuto coniare un nuovo termine – quella della “frammentazione geoeconomica’” – per accendere le spie rosse che indicano i nuovi pericoli. Quali la destrutturazione delle vecchie catene globali del valore, le interruzioni dei flussi di approvvigionamento, il rallentamento nella diffusione tecnologica, il peggioramento nell’allocazione del capitale e l’aumento permanente dei livelli dei prezzi dovuto alla perdita di efficienza produttiva. Di tutto ciò – è bene ricordarlo – Paesi, come la Russia o l’Iran, portano le più gravi responsabilità.
L’Italia è quindi avviluppata in un vortice destinato ad avere conseguenze che, al momento, è difficile valutare. Anche se le previsioni non sono tutte negative la loro variabilità è eccessiva. Il Fondo monetario internazionale, ad esempio, prevede per il prossimo anno un tasso di crescita pari allo 0,8 per cento, mentre per l’Ocse l’asticella raggiungerà quota 1,2 per cento. Di diverso avviso Banca d’Italia ed Istat che si allineano alle previsioni del Fmi. Ma basta riferirsi agli anni successivi che le previsioni divergono maggiormente, con un Fmi più pessimista e la Banca centrale pronta invece a scommettere su una crescita leggermente migliore. C’è solo da aggiungere che gli stessi Istituti sono costretti ad aggiornare continuamente i dati a loro disposizione, con effetti purtroppo negativi. Con il trascorrere dei mesi, infatti, il pessimismo, non solo sulla situazione italiana, sembra aumentare.
In mezzo a tanto malessere, tuttavia, un elemento sembra consolidarsi: per la situazione italiana l’andamento del commercio con l’estero continua ad essere una leva centrale del suo sviluppo economico e finanziario. Una svolta avvenuta negli anni passati, all’indomani della Global Financial Crisis, originata dallo shock esogeno generato dal fallimento, negli Stati Uniti, della Lehman Brothers. La stretta fiscale imposta dal Governo Monti, per far fronte alla pressione della speculazione internazionale, aveva messo uno stop al forte deficit commerciale dei primi anni della nascita dell’euro. Successivamente il successo iniziale si era consolidato, al punto da determinare quell’inversione di tendenza – il passaggio da un Paese debitore ad uno creditore – di cui si diceva in precedenza. Le previsioni per i prossimi anni, nonostante le incertezze – che farà Donald Trump? – non sono cattive. In generale il saldo, seppur variabile a secondo del sentiment dei diversi istituti, dovrebbe rimanere positivo.
Resta, tuttavia, sullo sfondo il grande handicap che dagli anni ’80 in poi ha segnato profondamente la situazione italiana. Quel dipendere dall’estero per i rifornimenti energetici. Quell’essere da sempre sottoposta ai capricci dei vicini. Si pensi solo alle crisi degli anni ’70 e ’80 con il prezzo del petrolio che subiva le impennate dovute non tanto agli andamenti della situazione economica, ma di quella politica. Recentemente il Governo, nel presentare il suo “Piano strutturale di bilancio di medio termine”, ha calcolato l’impatto delle forniture d’energia sui restanti parametri del quadro macroeconomico. Prescindendo dal contributo fornito allo sviluppo del processo inflazionistico, gli elevati costi dell’energia hanno colpito soprattutto i consumi, con maggior accanimento per quelli delle famiglie con redditi minori. Ma il dato forse più sconcertante è quello relativo alla caduta del tasso di crescita dell’economia italiana, che il “caro petrolio” ha determinato. Negli ultimo 10 anni – questo è il dato fornito dal “Piano strutturale” – il Pil Italiano è cresciuto in media dell’1 per cento in termini reali. Le importazioni nette di prodotti energetici sono state, invece, pari al 2,2 per cento del Pil. Senza questa zavorra, quindi, lo sviluppo italiano sarebbe stato del 3,2 per cento. Tutto un’altra storia, che dovrebbe far riflettere chi si oppone allo sviluppo del nucleare di nuova generazione, in grado di contenere i costi e ridurre il peso delle importazioni.
Attenzione massima al commercio internazionale; ruolo attivo dei presidi italiani all’estero; interventi specifici, come il Piano Mattei per l’Africa; centralità del Mediterraneo e rapporti di maggior collaborazione con i Paesi produttori di petrolio, con l’idea di trasformare l’Italia nell’hub energetico (petrolio e gas) di tutto il Continente. Insomma, l’Italia c’è e ci vuole essere. La speranza è che ci sia anche l’Europa: altra grande partita aperta per realizzare quelle riforme non più procrastinabili. Lo dimostra la crisi in cui versano Francia e Germania, che non è figlia del caso. Ma la conseguenza di una miopia – si pensi solo alle Nuove Regole del Patto di stabilità e crescita – per troppo tempo coltivata. Basterebbe citare il caso di Cristian Lindner, ex ministro delle Finanze tedesche nonché capo del Partito Liberale Democratico, costretto alle dimissioni da Olaf Scholz dopo le impuntature assunte proprio su quel tema. Per dimostrare al proprio elettorato di essere più rigoroso di AFD, il partito di estrema destra, che lo tallonava da vicino.
Quello italiano è quindi un grande cantiere, un quadro in movimento che solo chi è cieco non vuol vedere. Dispiace quindi l’atteggiamento della sinistra. Il suo massimalismo parolaio la costringe in un angolo, comprimendo quelle forze riformiste che vorrebbero essere protagoniste. Costrette, invece, alla ricerca di una specifica rappresentanza politica. Speriamo solo che questo avvenga quanto prima, nell’interesse dell’intera nazione.