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“La seconda vita” di Palmieri e il diritto alla speranza

“La seconda vita” (2024, dall’omonimo romanzo di Michele Santeramo), di Vito Palmieri, ci racconta un dramma interiore, dai delicati toni narrativi, sulla possibilità di tornare a sperare, a vivere, dopo gravi errori. Centrale il ruolo della natura, tra Visconti e Jasný, chiamata a sostenere l’essere umano quando il mondo lo esclude. Un film che piacerebbe a papa Francesco

In un piccolo centro del nostro meraviglioso Sud, immerso in una campagna dalla fragranza tra impressionismo e divisionismo (Monet e Fattori), giunge una giovane donna (Marianna Fontana: bel lavoro in sottrazione), dai capelli raccolti a coda, modesta nel vestimento, silenziosa, con grandi occhi neri che nascondono un segreto. Usa una identità non sua. «Anna», dice di chiamarsi. Il responsabile della biblioteca, Marco, la assume come bibliotecaria perché è rimasto colpito dalla sua lettera-richiesta di lavoro (nel sottofinale, vedremo che il suo “gentile interesse” era stuprarla). Ma ella, tra i suoi sguardi di cerbiatta timorosa anche del fruscio di una foglia e i suoi silenzi tra frase e frase, in quegli spazi bianchi tra una parola e quella che segue, gravidi di passato e spaventati dal futuro, cerca di rinascere. Di tornare alla vita normale. Fa notare al direttore della biblioteca di non gradire domande sul suo passato.

Camminando per il paese, mentre si reca al lavoro, poi nel piccolo bar-pub per bere qualcosa, Anna incontra un giovane fabbro del posto, Antonio (Giovanni Anzaldo, misurato, esitante e poi gradatamente deciso, come chiesto dal suo ruolo). Tra una lei irrigidita dal passato e un lui intimorito dal mondo segreto di una donna dal volto congelato, il primo bacio, comunque, pur desiderato da entrambi, arriva sofferto e potrebbe generare equivoci.

Antonio e suo padre (Antonio Rignanese, parla con lo sguardo), tra diversi piccoli lavori da fabbro, dovrebbero riparare una grande campana della parrocchia locale, attraversata da una lunga crepa verticale, e ora parcheggiata nello spiazzo di fronte alla loro umile officina-tettoia.

I due giovani si frequentano. Anna è invitata da Antonio a visitare la sua officina. Avvicinatasi alla campana la osserva, e accarezza la lunga feritoia verticale. Antonio le spiega che dovrebbe lavorarci ma vista la difficoltà dell’intervento non riesce a iniziare.

Anna continua a lavorare in biblioteca. La verità esce fuori, “grazie” alla malata curiosità del direttore della biblioteca, Marco (Lorenzo Gioielli: la parte del soggetto ipocrita e viscido è tutta sua). Anna ha vissuto gli ultimi quindici anni in carcere, come rea di assassinio (sororicidio), quando era minorenne. In un atto di gelosia («Mia sorella era sempre felice, io no. Non lo sopportavo») la annegò, durante le vacanze al mare.

Naturalmente, la voce corre veloce in tutto il paese. Nessuno più la guarda, quando cammina per la via del centro; sentiamo delle imposte di finestre sbattute energicamente al suo passaggio. La tabaccaia non le fa più credito. Anna, la forestiera silenziosa e lavoratrice, accettata, adesso è rifiutata. Solo la giovane barista, davanti a lei mentre cerca consolazione in un sorso di vino rosso al banco, quel vino che simboleggia il sangue di Cristo abbandonato da tutti sulla croce, le dice, «per me non cambia niente».

Anche Antonio si è allontanato. Dice al padre, nel loro furgone di lavoro mentre tornano dall’isola ecologica dove hanno lasciato la differenziata dei metalli, «vorrei vivere in pace. Niente campana, niente Anna. […]. Quella ha bisogno di una persona particolare, chi vuole una assassina?». Il padre tace. Antonio pare fugga le prove apparecchiategli dalla vita.

Un presunto finale indirizzato verso la tragedia (un “finto-finale”: il primo a introdurlo nel cinema fu Charlie Chaplin, A Woman of Paris, 1923) si apre, dopo aver attraversato l’imbuto d’una hitchcockiana suspense, all’azzurro della vita, evitando una chiusa cupa alla “primo Kaurismaki”. Palmieri (insieme allo scrittore e sceneggiatore Michele Santeramo), audacemente, inventa un impredicibile ticket teologico-filosofico sul perdono verso sé stessi. Un ticket-dono necessario per entrare, appunto, nella seconda vita. Quella che ognuno di noi desidera per mettere tra parentesi i terribili errori del passato.

Illuminante l’analogia tra la lunga crepa della campana e la ferita che ha squarciato la vita di Anna. Antonio, trovato il coraggio in sé, inizia a riparare la campana: lava la ruggine dalla crepa, la stucca, la salda. Le ridà una seconda vita. Tornerà da Anna, che sta lasciando il paese, senza odio senza rancore, non aspettandosi niente da alcuno. Sa di essere una esclusa dalla vita, una ‘senza speranza’. Antonio decide per lei. Vuole aiutarla a saldare quella ferita che il tempo lenirà ma che, inevitabilmente, lascerà una (lontana) cicatrice, come quella visibile sulla campana rigenerata a nuova vita.

La regia di Vito Palmieri è misurata nelle soluzioni drammatiche. Per esempio, egli sa, come pochi, rendere un terribile e violento atto di stupro, con dolore per chi lo subisce, evitando la spettacolarizzazione dell’azione, ma al contempo facendo emergere tutta la forte indignazione nello spettatore.

I movimenti di camera sono gestiti con parsimonia: Palmieri sa quando optare per le riprese a mano (Anna, sola, cammina nel paese in preda al tormento interiore) e quando deve fare respirare la fragranza della vita ai due personaggi, incastonando il racconto dentro rari, ma essenziali, campi lunghi di una natura resa a chiazze (il degradante bianco della nebbia; il giallino e il verde dei prati in dialogo tra di loro). Qui il suo amore per il paesaggio, s’aggancia al suo passato di sensibile documentarista, anche grazie alla fotografia di Michele D’Attanasio che pare rinviare ai luminosi “quadri” di un Luchino Visconti (Il gattopardo, 1963) o di un Vojtěch Jasný (Tutti buoni compaesani, 1968).

La seconda vita (tratto dal romanzo omonimo del citato Santeramo), che andrebbe mostrato nelle scuole, parla sottovoce di sperare nella vita, di annusare i colori della natura, di guadagnarsi umilmente il pane quotidiano tra una saldatura e una limatura di un profilato di metallo su due cavalletti. L’opera di Palmieri è uno strozzato grido d’amore («non posso più nascondermi, sono stanca», Anna) per chi ha sbagliato, per i rifiutati, per i soli. Un film da vedere, nell’anno del Giubileo dedicato alla Speranza.


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