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Israele, incontro Sullivan-Herzog tra negoziati e tensioni

È il momento di una tregua a Gaza? Gli Usa pressano, ma il governo Netanyahu potrebbe voler aspettare il ritorno di Trump alla Casa Bianca per rendere più potabile la scelta

La politica israeliana si trova a un bivio cruciale, con segnali di apertura verso un possibile cessate il fuoco a Gaza e nuove pressioni sul governo Netanyahu sia sul fronte interno che regionale. Durante l’incontro a Washington tra il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan, e il presidente israeliano, Isaac Herzog, è emersa la possibilità di avviare negoziati che potrebbero portare a una tregua duratura. Questa ipotesi si inserisce in un contesto delicato, con il primo ministro Benjamin Netanyahu che affronta un calo di consensi e una complessa instabilità politica: da un lato ha un’ampia fetta di cittadini che, dopo quindici mesi di guerra, vorrebbe una tregua, dall’altro una serie di partiti estremisti (cruciali per la maggioranza) che rappresentano istanze oltranziste e vorrebbero approfittare della situazione per portare avanti piani ultra-sionisti.

È una condizione che ormai il premier soffre da mesi. Durante la visita di questi giorni, Sullivan ha più volte sottolineato, pubblicamente e riservatamente, con toni adeguati a seconda dei casi, l’importanza di un cessate il fuoco come punto di partenza per alleviare la crisi umanitaria a Gaza e stabilizzare la regione. E sebbene Netanyahu abbia finora mantenuto una linea dura, alcune indiscrezioni suggeriscono che il governo stia valutando possibili concessioni, spinte anche da pressioni internazionali, in particolare quelle dagli Stati Uniti. Questo dialogo potrebbe rappresentare una svolta per l’amministrazione Biden, che cerca di bilanciare il sostegno a Israele con l’attenzione ai diritti umani nella regione. Una tregua stabile, come quella mediata sul fronte libanese con Hezbollah, permetterebbe ai democratici di scrivere una legacy da poter usare successivamente contro l’amministrazione entrante repubblicana.

Qui sta parte della complicazione. Netanyahu non ha interesse ad accontentare adesso Joe Biden, consapevole che tra poco più di un mese non ci sarà più lui nello Studio Ovale. Piuttosto, se concessione deve essere, meglio mostrarsi aperti a Donald Trump, per fargli incassare un rapido successo nell’asse di narrazione da portatore di pace su cui ha costruito parte della sua campagna elettorale e questa fase di transizione. D’altronde, Netanyahu non ha fretta di procedere verso una scelta che potrebbe comunque creargli problemi.

Anche perché, i sondaggi più recenti fotografano un calo significativo del consenso per il Likud, con un’erosione del supporto nei confronti del primo ministro. La crescente insoddisfazione popolare per la gestione del conflitto e per le riforme interne – tra cui quelle controverse sul sistema giudiziario – sta indebolendo la stabilità della coalizione di governo. La possibile apertura verso un negoziato con Gaza potrebbe essere interpretata come un tentativo di Netanyahu di rispondere alle critiche interne e riposizionarsi politicamente, ma rischia una rottura che potrebbe portarlo a una complicatissima fase elettorale. In questo caso, dunque, meglio vendere agli alleati politici più radicali una “Pace sotto Trump” che una con Biden, visto come un presidente non troppo amichevole dalle posizioni più oltranziste della politica israeliana.

Sul fronte della guerra combattuta, come osserva una fonte militare, “ormai a Gaza si rivoltano le macerie”, espressione per dire che non c’è praticamente più niente da combattere. Israele potrebbe tranquillamente procedere con un cessate il fuoco che sottintenda comunque la possibilità di procedere con operazioni mirate contro i membri di Hamas. Con la guerra nella Striscia che prosegue per inerzia (anche narrativa), e dunque un cessate il fuoco credibile anche per questo, l’attenzione si sposta sulla Siria.

Dopo la caduta di Bashar al Assad, Israele ha proceduto con operazioni di esternalizzazione della sicurezza nazionale, avanzando sulle aree contese del Golan e compiendo una profonda serie di attacchi in Siria. Sono state colpite infrastrutture militari legate all’Iran e a gruppi filo-sciiti, ma anche assetti militari di vario genere appartenenti all’esercito assadista. Queste operazioni servono a evitare che certe armi (come per esempio quelle chimiche) finiscano nelle mani dei rivoluzionari — che vedono lo Stato ebraico come ideologicamente nemico.

Il contesto siriano rappresenta un’ulteriore complessità per Israele, avvolto su più fronti di guerra e totalmente orientato alla protezione del suo interesse nazionale — obiettivo che, come visto il 7 ottobre, nel caso israeliano si declina sotto un significato esistenziale. Quanto di questo interesse nazionale sta nel cercare una tregua a Gaza al momento non è chiaro.


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