Macron ha nominato Francois Bayrou nuovo primo ministro. Ma al di là dei limiti mostrati dall’Eliseo, le cause della crisi francese sono riconducibili a un sistema politico la cui polarizzazione ha creato un sistema di totale incomunicabilità che, di fronte alle difficoltà economiche e finanziarie, ha finito per distruggere qualsiasi idea di unità nazionale. Aprendo così la strada a una crisi di cui non sarà facile prevedere gli sbocchi. L’analisi di Gianfranco Polillo
Fa un certo effetto leggere le pagelle nei confronti di tutti gli Stati membri dell’Eurozona. Su 19 Paesi, solo 9 sono stati promossi a pieni voti, dalla Commissione europea, nella sessione autunnale. L’Italia è tra questi, ma non la Germania e gli altri Paesi frugali, come l’Austria o i Paesi Bassi. Chi di spada ferisce, di spada ferisce: verrebbe da dire. Una dura legge del contrappasso ha castigato coloro che, in passato, avevano mostrato un’insopportabile supponenza, additando coloro che non si adeguavano alle regole europee come degli smidollati, dei gaudenti, sempre pronti a vivere al di sopra delle proprie possibilità, approfittando dei denari altrui. Vale quindi la pena soffermarsi sulle loro pene, cominciando dalla Francia. Che, per la verità, era stata promossa, ma l’esito non le ha giovato. Obbligato a seguire le nuove regole del Patto di stabilità, il premier Michel Barnier, aveva dovuto costruire una manovra che le opposizioni di destra e di sinistra avevano considerato “lacrime e sangue”. Quindi costretto ad una rapida ritirata, terminata con le sue dimissioni.
Colpa quindi della Ue; dell’intransigenza di Jean-Luc Mélenchon, leader de La France Insoumise; della furbizia di Marie Le Pen, a capo della destra? O più semplicemente di una situazione economica da anni sempre meno sostenibile? E quindi, prima o poi, destinata ad esplodere? Fa una certa impressione guardare ai dati basici degli assetti della sua finanza pubblica. Da quasi 20 anni a questa parte la spesa corrente della Francia è la più alta nei confronti di tutti gli altri Paesi: in media oltre 7 punti in più rispetto ai valori medi dell’Eurozona. Il vecchio statalismo francese: si dirà. No: più che altro un colbertismo in salsa svedese che, negli anni, ha assunto sempre più una coloritura assistenziale. Rispetto al regno della socialdemocrazia nordica, la spesa corrente francese è progressivamente aumentata, mentre quest’ultima scendeva per dare spazio agli investimenti pubblici. Cresciuti in quest’arco di tempo dal 2,5 al 4,1% del Pil. Eppure nonostante questa risalita, la spesa complessiva svedese, al netto degli interessi, risulta ben più contenuta (circa 8 punti in meno) rispetto al suo competitor francese.
Ovviamente, in Francia, crescevano anche le entrate, accentuando la morsa della pressione fiscale sulla produzione – anch’essa prima in Europa, 4 punti di Pil abbondanti sopra l’Italia – ma non in modo sufficiente. Ed ecco allora un disavanzo persistente che si trascina fin dal 2009 su valori ben più alti di quelli italiani. Al di sotto del 3 per cento solo nel biennio 2018/2019. Significativo da un punto di vista storico – politico il dato del 2010. Nell’ottobre di quell’anno si svolse il famoso incontro tra Nicolas Sarkozy ed Angela Merkel in quel di Deauville, in cui si gettarono le basi che poi portarono alla caduta di Silvio Berlusconi, l’anno successivo all’indomani del vertice di Canne (ma Angela Merkel ha recentemente negato ogni sua partecipazione al fattaccio). Ebbene il deficit francese, senza contare il differenziale nella spesa per interessi (la metà di quelli italiani) era pari al 7,2 per cento del Pil, quello italiano al 4,2. L’attacco speculativo non fu però rivolto contro i titoli di stato (OAT) di Parigi, ma contro i BTP italiani. Ancora una volta, com’era già avvenuto durante la crisi dello SME, nel 1992, l’asse franco-tedesco garantì la salvezza della Francia.
Da allora l’economia italiana, seppur stentando e con enormi sacrifici, si era rimessa in riga. Fino al 2020, l’anno della pandemia, il suo indebitamento era stato sempre sotto il 3 per cento, contro un deficit francese perennemente al di sopra di quell’asticella. Il debito pubblico italiano era cresciuto, ma ad un tasso annuo dimezzato rispetto a quanto avveniva Oltralpe. Sempre in Italia, il forte passivo patrimoniale con l’estero, che nel 2012 era pari al 26,4% del Pil era stato eliminato e trasformato in un attivo che, 2023, aveva raggiunto il 7,4% del Pil. La Francia invece rimaneva impantanata nelle sue contraddizioni. Dell’indebitamento si è già detto, mentre sul fronte estero è stato un continuo precipitare dalla nascita dell’euro. Gli ultimi dati indicano un passivo patrimoniale netto pari al 36,6% del Pil, nel 2023. Una voragine che riflette la crescente debolezza dell’economia francese sui mercati internazionali. Ed, infatti, il saldo delle partite correnti della sua bilancia dei pagamenti, in questi ultimi anni, è stato sempre sull’orlo di un piccolo precipizio. Mentre l’Italia viaggiava con il vento in poppa.
Il riferimento a quegli anni lontani consente anche di spiegare un piccolo mistero. La crisi che ne caratterizzò il profilo, non fu solo un fatto interno alla Grecia, l’Irlanda, la Spagna, il Portogallo e Cipro che furono poi costretti a chiedere l’intervento del Fondo salva Stati. Né tanto meno dell’Italia, a sua volta, obbligata negli anni successivi ad avere Presidenti del consiglio non eletti dal popolo. Almeno fino all’ascesa di Giorgia Meloni. La crisi fu conseguenza di uno shock esterno, partito dagli Stati Uniti, con il fallimento della Lehman Brothers, e poi trasformatesi nella “Global Financial Crisis”. Che investì l’intero pianeta. Della Francia si è detto, ma la stessa Germania, negli anni 2009 e 2010, sforò seppur di poco il tetto del deficit previsto dagli accordi di Maastricht.
Oggi, per la prima volta quei nodi non risolti sono venuti al pettine. Lo scorso ottobre la Francia, insieme ad altri 7 Paesi (tra cui l’Italia), era stata sottoposta a procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo. Stando alle regole europee, avrebbe dovuto ridurre il suo debordante deficit (6,1% nel 2024) di una percentuale pari allo 0,5 per cento l’anno, onde rientrare nel 2029 nei parametri di Maastricht. Ciò avrebbe comportato una crescita della spesa primaria netta pari a zero, per il prossimo anno. Quindi entro un tetto dell’1,4 per cento in più fino al 2028 (1,3% nel 2029).
Al fine di ottemperare agli accordi con la Commissione, il governo aveva predisposto una manovra destinata ad aumentare le entrate per 21,6 miliardi di euro, pari allo 0,7% del Pil e ridurre le spese per altri 12 (0,4% del Pil), colpendo soprattutto consumi pubblici e trasferimenti sociali. Per un totale di 33,6 miliardi. Sul fronte delle entrate era intenzione del governo aumentare le imposte sui profitti delle grandi imprese e sul trasporto marittimo; rivisitare il sistema delle riduzioni contributive a carico del salario minimo; ripensare i propositi di riduzione del carico fiscale su imprese, lavoratori ad alto reddito e sulle accise dei consumi elettrici prevedendo, inoltre, aumenti di imposte indirette sui consumi energetici derivati dal fossile. I tagli di spesa, invece, riguardavano la posticipazione al 1° luglio 2025 dell’indicizzazione delle pensioni; la riduzione degli incentivi per gli acquisti dei veicoli elettrici, la manutenzione degli edifici e i benefici concessi ai lavoratori a basso reddito; un limite più stringente alla crescita della spesa sanitaria più un’ulteriore stretta sulla spesa del governo centrale e locale.
Manovra che la Commissione aveva, comunque, ritenuta insufficiente. Troppo incerte e poco dettagliate erano, infatti, le misure indicate. Al tempo stesso lo scenario macroeconomico, posto a base delle previsioni governative e tale da rendere coerente la manovra, rispetto agli obiettivi di deficit da conseguire, appariva fin troppo “fragile”, come indicato dallo stesso Haut Conseil des Finances Publiques: l’organismo indipendente francese chiamato a verificare le previsioni governative. Eppure nonostante la sua relativa “leggerezza” la manovra era stata respinta dal Parlamento, fino a mettere in crisi il governo presieduto da Michel Barnier. Colpa di Emmanuel Macron e del suo “narcisismo”?: come ha scritto Alain Minc in un suo saggio recente (“Somme toute” Grasset editore). Al di là dei limiti mostrati dall’Eliseo, le cause sono ben più complesse. Riconducibili ad un sistema politico, la cui polarizzazione ha creato un sistema di totale incomunicabilità che, di fronte alle difficoltà economiche e finanziarie, ha finito distruggere qualsiasi idea di unità nazionale. Aprendo così la strada ad una crisi di cui non sarà facile prevedere gli sbocchi.