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La spesa assistenziale italiana sotto esame: riforme necessarie? Scrive Zecchini

L’espansione della spesa assistenziale italiana solleva interrogativi sulla sostenibilità a lungo termine e sul suo impatto su equità sociale, sviluppo economico e bilancio pubblico, tra sfide demografiche e inefficienze strutturali

Nel clima natalizio si è più inclini a esprimere solidarietà agli indigenti fornendo assistenza in varie forme. Lo Stato è il principale soggetto che si impegna nel sostenere i meno abbienti, ricorrendo a vari interventi nell’intento precipuo di mitigare le disparità di risorse tra i cittadini e promuovere la coesione sociale. Le disuguaglianze di censo e i fenomeni di povertà, tanto assoluta che relativa, tendono a disgregare tra i cittadini il senso di comunità, benché siano il risultato della naturale diversità tra individui nelle capacità e nell’impegno al lavoro. Anche nelle società più egalitarie si osservano dislivelli di reddito malgrado lo Stato operi per contenerli con vari meccanismi redistributivi.

In Italia la spesa pubblica per interventi assistenziali, coperta con trasferimenti a carico della fiscalità generale, ammontava nel 2023 a 164,4 miliardi, secondo l’apposita gestione Gias, comprendendo componenti classificate come pensioni e sovvenzioni per disoccupazione che in realtà sono forme di assistenza. Nell’ambito della più ampia spesa per la protezione sociale, che include anche quelle per sanità, malattia e vecchiaia, la parte assistenziale diretta a contrastare l’esclusione sociale e per la famiglia è quella che è aumentata maggiormente negli ultimi dieci anni, passando dal 10,4% del totale destinato alla protezione sociale nel 2004 al 15,5% nel 2022, in contrasto con la riduzione delle altre componenti.

Negli anni i criteri di distinzione della spesa assistenziale da quella propriamente previdenziale sono stati oggetto di lungo dibattito, che ha condotto ad applicare parametri diversi tra paesi, col risultato di rendere complesso il confronto internazionale. In particolare, si dà preminenza sempre più alla funzione della spesa piuttosto che alle sue fonti di copertura. È nondimeno innegabile che se si tratta di voci di spesa sociale a fronte delle quali non vi è un corrispondente onere contributivo, ovvero che sono coperte dalla fiscalità generale, si è di fronte a una forma di assistenza sociale rivolta genericamente ai cittadini, che va distinta dalla previdenza posta a carico del lavoratore.

Seguendo questo criterio, emerge che il bilancio pubblico ha accresciuto il suo contributo all’Inps per politiche sociali da 99,4 miliardi nel 2013 a 164,8 miliardi nel 2023, portando la sua incidenza sul totale per la protezione sociale dal 31,7% al 37,6%. La dinamica delle contribuzioni previdenziali dei lavoratori si è, invece, sviluppata a ritmi inferiori alla metà.

Quali le finalità di questa dilatazione dell’assistenza sociale? L’importo maggiore è destinato alla corresponsione di forme di pensione prive di copertura contributiva, a cui seguono per importanza gli sgravi contributivi, le misure per la famiglia, le prestazioni per invalidità, i sostegni al reddito, l’inclusione sociale e gli assegni e pensioni sociali. Dopo la funzione pensionistica ad espandersi maggiormente sono quelle per l’occupazione e la natalità, segno di una crescente attenzione ai problemi demografici del Paese e al rafforzamento della domanda di lavoro da parte delle imprese. Con i sostegni alla natalità e alle famiglie povere si vuole interpretare una nuova sensibilità sociale, mentre con gli incentivi all’occupazione si tende a elevare la partecipazione al lavoro anche in funzione di contrasto all’effetto che il declino delle nascite ha sulla consistenza delle forze di lavoro. Le prestazioni assistenziali in forma impropriamente detta pensionistica, tuttavia, hanno un peso soverchiante, contribuendo alla deriva verso una società poco “attiva”.

Separando la spesa assistenziale da quella propriamente previdenziale, si ridimensiona l’incidenza di quest’ultima sul reddito nazionale. Secondo un recente studio degli esperti dell’Inps l’incidenza al netto di quella effettivamente assistenziale ammonta al 14,4% del Pil contro il 15,1% del totale delle pensioni. Questa riduzione non è tuttavia sufficiente a riportare l’onere di bilancio per la previdenza in linea con la media europea, lasciando il Paese tra quelli che destinano alle “pensioni” la quota maggiore in rapporto al reddito nazionale.

La generosità del sistema pensionistico può cogliersi in pochi dati. Benché il crescente invecchiamento della popolazione tenda inevitabilmente a far aumentare l’onere per il bilancio statale, diversi fattori connessi al regime pensionistico concorrono ad accentuare la dinamica. Il rapporto tra anziani e persone in età di lavoro ha già raggiunto il 41%, l’età media effettiva di pensionamento è 64,2 anni a fronte dei 67 anni previsti per la pensione di vecchiaia e il rapporto medio di sostituzione (pensione/ultima retribuzione) al 59,4%.

Per il bilancio pubblico questi livelli sono tra i più onerosi tra i paesi europei e tendono a peggiorare nel prossimo decennio. La sostenibilità dell’attuale sistema pensionistico è messa ancor più a rischio, oltre che dall’invecchiamento crescente della popolazione, dalla riduzione delle forze di lavoro e dalla lenta crescita dell’economia. In simili condizioni, solo una nuova fase di espansione del reddito nazionale, che poggi su consistenti incrementi di produttività, potrà evitare che la spesa per le prestazioni pensionistiche superi il volume dei contributi versati dai lavoratori. Se non si realizzasse, lo squilibrio conseguente nel bilancio pubblico dovrebbe essere coperto con maggiori entrate, ovvero con nuovi prelievi fiscali che, sovrapponendosi a una già relativamente elevata tassazione, avrebbero l’effetto ultimo di scoraggiare investimenti e sviluppo economico.

Analoghe considerazioni valgono per la spesa assistenziale. Il quesito da porsi sta nello stabilire se l’espansione di questa spesa contribuisca alla crescita economica oppure ne rappresenti un freno. Si sostiene, inoltre, che la dilatazione della spesa pensionistica lasci poco margine nel bilancio pubblico per più consistenti interventi assistenziali. Ma non va trascurato che nel generoso regime pensionistico è compreso un elemento di assistenza. Se si seguissero, infatti, stretti criteri attuariali basati sui versamenti dei lavoratori e sulla speranza di vita residua, molti trattamenti pensionistici andrebbero ridimensionati in misura sostanziale.

Certamente una parte dell’assistenza è giustificata da esigenze di equità sociale e serve a conferire un potere di acquisto a cittadini che altrimenti non sarebbero in grado di procurarsi i mezzi per condurre un’esistenza dignitosa. Nelle intenzioni esprimono il senso di solidarietà del Paese verso quanti subiscono invalidità, o perdono il familiare unica fonte di reddito, o a causa di malattie non sono temporaneamente in condizioni di lavorare. Questi trasferimenti di risorse a carico della società (senza corrispettivo) in definitiva alimentano la domanda interna, particolarmente per consumi, e di riflesso concorrono alla formazione del prodotto nazionale. In alcuni modelli teorici di sviluppo economico, sostenere la capacità di spesa che si traduca in una maggior propensione al consumo può servire a stimolare la produzione interna con effetti moltiplicativi sulla crescita. Una parte, peraltro, può defluire all’estero se viene spesa per importazioni, come nel caso dei pensionati residenti all’estero.

Diverso il caso in cui le elargizioni coinvolgono strati della popolazione non bisognosa e con capacità lavorativa. Questi trasferimenti di natura effettivamente assistenziale, come gli anticipi o gli sgravi pensionistici e i redditi di cittadinanza, non necessariamente finiscono col sostenere la produzione interna e possono sottrarre forze al lavoro e alla crescita. Possono altresì tarpare le ali all’impegno individuale nel migliorare col lavoro la posizione reddituale e spingere per un’uscita anticipata dal mondo produttivo. Si creano pertanto le premesse per generare una società poco attiva, che pesa eccessivamente sulla parte lavorativa, a sua volta destinata a restringersi per fattori demografici. In altri termini, a lungo andare si gettano i semi per l’insorgere di un potenziale conflitto tra generazioni.

Alcuni interventi assistenziali, invece, possono servire a incentivare la crescita, come quelli per la disoccupazione e gli sgravi fiscali per i premi di produttività. I primi rendono più fluido il funzionamento del mercato del lavoro nei processi di ristrutturazione, o di evoluzione tecnologica, o di ricambio imprenditoriale. L’avanzare delle tecnologie digitali e la trasformazione del lavoro possono giovarsi dei meccanismi di assistenza per la migliore allocazione dei lavoratori. Gli incentivi per la produttività, d’altronde, migliorano oltre alla remunerazione del lavoro, la redditività delle imprese e ne promuovono la competitività e gli investimenti.

La sostenibilità negli anni della spesa assistenziale dipende in definitiva dalla misura in cui è compatibile con la generazione di maggiori risorse a livello nazionale e con l’innalzamento della partecipazione al lavoro e della produttività. Sono motivo di riflessione, in particolare, la generosità del sistema nell’identificare i soggetti meritevoli di sostegno e il destinare all’assistenza risorse pubbliche superiori a quelle per capitoli di spesa molto più rilevanti per accrescere il potenziale produttivo. Sotto il primo profilo la selezione dei soggetti meritevoli di assistenza non sembra così stringente come richiesto dallo stato precario della finanza pubblica. L’impiego dell’indicatore Isee per valutare la condizione economica del nucleo familiare appare poco selettivo in un Paese ad alto grado di evasione fiscale e lavoro in nero. Per altro verso, si destinano all’assistenza risorse all’incirca equivalenti a quelle per investimenti pubblici e per trasferimenti in conto capitale, che favoriscono maggiormente lo sviluppo del sistema produttivo. Si tratta rispettivamente di una spesa assistenziale superiore a 164 miliardi nel 2023 a fronte di quella per investimenti fissi lordi per 67,6 miliardi e per trasferimenti in conto capitale per 124 miliardi. Il confronto con la spesa pubblica per Ricerca, Sviluppo e Innovazione è impari, ossia oltre il 7,9% del Pil per l’assistenza a fronte di 0,3% per R&I, oppure dell’1,3% aggiungendovi la spesa del settore privato.

Pertanto, in assenza di un ritorno alla crescita sostenuta del reddito nazionale e della produttività la spesa assistenziale è esposta a grande rischio di non essere sostenibile. È necessario quindi ripensare la distribuzione delle risorse prelevate dai cittadini tra le diverse funzioni del bilancio pubblico e rendere la componente assistenziale più selettiva e non d’intralcio allo sviluppo.


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