Per l’Autorità delegata, le parole scelte fanno la differenza. Quindi, no a “servizi segreti” e “comparto”. E lancia una proposta: rivedere il divieto di disvelamento dell’identità per gli analisti. Poi rivela: obiettivo 60% di ingressi tramite concorso
“Servizi segreti” no. “Comparto” neppure. Sì, invece, “servizi di intelligence”. È da quando ha assunto la funzione di Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica che il sottosegretario Alfredo Mantovano chiede di prestare particolare attenzione alle scelte lessicali quando is parla di intelligence. L’ha fatto nuovamente ieri a Palazzo Dante, intervenendo alla cerimonia di premiazione della sesta edizione del premio “Una tesi per la sicurezza nazionale”, promosso dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Presenti anche Elisabetta Belloni, direttore del Dis, Giovanni Caravelli, direttore dell’Aise, e Bruno Valensise, direttore dell’Aisi.
“Servizi segreti”, ha spiegato, “evoca il nascondimento, le tenebre, le trame oscure”. Meglio parlare, ha continuato, di “servizi di intelligence”. Ovvero, concentrarsi sull’obiettivo, cioè la raccolta informativa, piuttosto che sul metodo, che nella stragrande maggioranza dei casi è, appunto, segreto (il segreto, però, è diverso da mistero).
Ma l’Italia è il Paese in cui la spia, così come molti nell’ambiente vogliono definirsi, viene facilmente bollata negativamente come lo spione. In cui capita che si abusi del termine spionaggio per indicare attività illegali. Per non dire degli stereotipi riassunti da “007”, che perfino la casa di James Bond, l’MI6, sta cercando di abbattere. E così, neppure la parola “servizi” gode di buona fama. Un esempio: il vocabolario Treccani, per illustrare la voce “deviato”, sceglie i “servizi segreti deviati” – una definizione che, come già evidenziato su queste pagine, getta ombre sull’attività dell’intelligence italiana offrendo allo stesso tempo coperture alle responsabilità politiche.
“Comparto” no, perché “richiama o le ferrovie o i supermercati”, ha dichiarato ancora il sottosegretario Mantovano.
Come detto, non è la prima volta che l’Autorità delegata si sofferma sulle scelte lessicali. Queste riguardano la cultura della sicurezza, mentre per quanto riguarda l’organizzazione si discute ormai da tempo di una possibile riforma (sul tavolo c’è la proposta di Lorenzo Guerini, presidente del Copasir, che però riguarda la creazione di un Consiglio di sicurezza nazionale, la scrittura di una Strategia di sicurezza nazionale triennale e il rafforzamento dell’Autorità delegata la cui istituzione diventerebbe obbligatoria).
Ma ieri il sottosegretario si è soffermato anche su un altro aspetto di quella che ha definito “inadeguata percezione del valore dell’intelligence”. “Essere così rigorosi nel divieto di disvelamento dell’identità degli appartenenti dei servizi di informazione per la sicurezza è ancora una necessità al passo coi tempi?”. Il riferimento non è, ha precisato, al divieto “che ovviamente va applicato col massimo del rigore per chi svolge compiti operativi. Mi riferisco a chi è impegnato nell’attività di analisi, o comunque in una attività caratterizzata da una naturale esposizione pubblica”, ha aggiunto, invitando a trovare “strade per riconsiderare i vincoli di segretezza” sull’identità del personale che si occupa di analisi. Serve ad “agevolare una più libera propagazione del senso di appartenenza a questa sempre più fondamentale articolazione dello Stato”, ha spiegato.
Ma non solo. Perché, ha detto ancora, permetterebbe di collaborare con le università italiane che oggi “soffrono” il fatto “di non poterne fare cenno pubblicamente”. E a nessuno è sfuggito il riferimento implicito al (criticato dalle opposizioni) articolo 31 del decreto-legge sicurezza che obbliga enti pubblici, università, aziende statali e concessionarie di servizi pubblici a un ruolo di collaborazione e assistenza verso l’intelligence.
Le parole dell’Autorità delegata non hanno sorpreso gli addetti ai lavori, che da tempo discutono di disvelamento e delle sue conseguenze. Infatti, manca una policy per i rapporti con il mondo esterno. Per esempio, Tizio, che spesso non condivide neanche il cognome, sa di non poter dire di essere un funzionario di Dis/Aisi/Aise neppure quando segue un corso di formazione offerto da docenti e strutture ritenuti sicuri (il livello di classifica dell’appartenenza è “segreto”, un gradino sotto “segretissimo”, quello massimo); ma non c’è una policy che gli suggerisca come presentarsi altrimenti.
Allo stesso modo nella comunità si discute anche di over-classification. Ovvero, per dirla con Avril Haines, direttore dell’Intelligence nazionale degli Stati Uniti, “Penso che si possa proteggere meglio i segreti se c’è un numero minore di cose segrete”.
Nello stesso intervento, il sottosegretario ha fatto riferimento alla decisione, “di recente assunta d’intesa coi vertici dell’intelligence, quella di portare al 60% l’aliquota degli ingressi tramite concorso, confidando in tante ‘vocazioni’ di giovani capaci”. Un’indicazione della volontà di continuare nello spirito della legge 124 del 2007, che indicato la transizione dal servizio interforze Sisde e dal servizio militare Sismi ai civili Aisi e Aise. La nomina di aprile del civile Valensise, entrato nell’intelligence vent’anni fa dopo gli studi, a direttore dell’Aisi, il servizio interno, sembra andare in questa direzione.