Alla riapertura della cattedrale parigina, il presidente eletto ha ribadito la priorità americana: la Cina, non l’Europa. E se le riforme rimangono bloccate e il ruolo internazionale si fa incerto, Roma rischia di restare indietro
La scena a Parigi per la manifestazione all’inaugurazione di Notre Dame è stata dominata dal presidente francese Emmanuel Macron, padrone di casa, e dal presidente eletto americano Donald Trump, arrivato con i colori dell’Ucraina.
L’espressione di Trump era corrucciata ma le parole e i gesti erano quelli di chi vuole comunicare un nuovo rapporto con un Paese chiave dell’Unione europea con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. A quest’ultimo gli Stati Uniti hanno chiesto di abbassare l’età di leva ma hanno in sostanza confermato l’appoggio militare comunque in cerca di una soluzione di pace da un punto di forza.
Ieri, la caduta di Damasco in mano a milizie appoggiate dalla Turchia, la fuga di forze russe dal porto di Tartus (Siria, unico appoggio nel Mediterraneo per la flotta di Mosca), ricordava a Vladimir Putin la fragilità della sua posizione in Ucraina. La Siria di Bashar al Assad è caduta in 11 giorni, senza il sostegno russo e iraniano. Oggi Russia e Iran sono più deboli.
Ma è la Cina lo spettro che si staglia sull’orizzonte americano. Il 6 dicembre David Perdue, appena nominato ambasciatore americano a Pechino, ha scritto un articolo programmatico sulla sua missione. La Cina è definita “minaccia esistenziale per gli Stati uniti” perché il suo Partito comunista ha un programma di egemonia globale illiberale. Né Russia né Medio oriente, per quanto pericolosi, rappresentano un rischio simile. Perdue afferma che la sfida di Pechino chiama a un nuovo tipo di guerra che non è quella tradizionale o quella combattuta durante la Guerra Fredda.
A questo scontro, non c’è da farsi illusioni, saranno chiamati anche i Paesi europei e bisognerà vedere come risponderanno. Anche perché con l’appoggio cinese la ricerca di una pace con la Russia in Ucraina è più difficile.
In questo contesto Trump è stato affabile e gentile con il presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni. Newt Gingrich, ideologo di Trump e marito dell’ex ambasciatore americano presso la Santa Sede, Calista Gingrich, ha lodato in un tweet le politiche sull’emigrazione del governo di Roma.
Ma c’è un problema strutturale e uno contingente che tormentano i rapporti bilaterali. Quello strutturale: la questione americana è la Cina. In questo campo l’Italia non sta dando (ed è improbabile che darà) un contributo significativo. Quello contingente: l’Italia non spende per le forze armate che per altro non hanno comportamenti troppo lineari (le navi nel Mar Rosso non sparano sugli Houthi, né il comando italiano dell’Unifil ferma gli Hezbollah o si ritira dal Libano). Non è poi realistico pensare che Trump si affidi a Meloni per creare un suo consenso in Europa. I leader europei si sono già affollati alla corte del neo presidente e gli Stati Uniti non hanno interesse a farsi mediare da altri.
Nel complesso delle enormi sfide dell’America oggi l’Italia può essere un peso, è complicata e non è importante. Sbracciarsi troppo per la penisola è un gioco che non vale la candela. Ciò detto non è un voto di sfiducia per Meloni. Lei rappresenta una specie di tappo che tiene controllo una situazione, e quindi va bene almeno per ora.
Allo stesso tempo Trump si gioca il suo secondo mandato con la scommessa di tariffe sul commercio e deregolamentazione massiccia. Il programma Doge (nome con echi veneziani) promette di tagliare triliardi in ogni settore pubblico. Questo il segno vero del Paese che vuole allungare il più possibile la distanza con la Cina.
Al contrario, in Italia Meloni protegge la protervia dei piccoli monopoli di tassisti o spiaggisti. Non c’è alcuna liberalizzazione, neppure quelle minimaliste richieste dall’Unione europea. L’Italia è Paese di intrighi. Facile fare cadere un governo, quasi impossibile costruire qualcosa. L’America di Trump è efficientista, corre contro la Cina, non può farsi impantanare dall’Italia.
Quindi gli spazi di Meloni, di qualunque altro partito, o dell’Italia sono quelli che rimangono. Da Washington sembra che nessuno si batterà contro questo governo o il Belpaese ma è anche improbabile che ci si tracci le vesti per esso. L’Italia ce la farà a spendere di più in armi e a usarle alla bisogna? Roma riuscirà a liberalizzare e tagliare la morsa burocratica sul Paese? Per questo autonomia differenziata e premierato sono una battaglia controproducente. La lotta contro i giudici forse serve ma non fatta così, frontalmente.
Questi sono temi da affrontare se Meloni vuole incidere davvero. Se vuole restare solo al potere va bene così.