Torna in auge il disegno erdoganiano di player a fisarmonica: si allarga o si restringe a seconda dell’esigenza. Ankara ha annunciato di volersi assumere la responsabilità di garantire unità e sicurezza a Damasco. Così Erdogan gioca su 3 tavoli: occidente, Russia e Medio Oriente
Da un lato il paniere di milizie ed ex terroristi che stanno plasmando il panorama post-Assad, mettendo fuori gioco Iran, Russia ed Hezbollah. Dall’altro la capacità di comprensione delle nuove (e non del tutto inaspettate) dinamiche che si sviluppano e si svilupperanno in tutta la macro area da parte dell’Ue, con la Turchia sempre più pivot. Quella di al-Julani in Siria potrebbe non essere una semplice rivoluzione di potere, ma una mossa che scompagina la già complicatisisma situazione nella macro regione a cavallo tra Medierraneo, Medio Oriente, Golfo e Caucaso visto il tenore dei riverberi in tutti i settori citati. Una scacchiera geopolitica in cui, se sono già evidenti gli alfieri che si sono mossi con la presa di Damasco e Hama, spetterà ora all’Europa e alla nuova Commissione comprendere gli scenari futuri e prevedere gli eventuali danni collaterali.
Sarà rivoluzione quella di al-Julani?
Sin dal 2016 il fondatore di HTS, al-Julani, ha programmato uno sforzo che a quelle latitudini è gravoso: sganciarsi dalla furia ideologica secca delle altre forze armate e provare a creare una “repubblica islamica” in Siria. Lo ha fatto traducendo quell’idea in una sorta di percorso a tappe: prima ha amministrato il governatorato di Idlib puntando sull’esecutivo siriano di salvezza nel 2017; poi ha insisto sull’aspetto umanitario, che andasse incontro alle esigenze concrete della popolazione, alle prese con la tragica guerra civile; quindi ha provato ad abbozzare un sistema che assicurasse istruzione, assistenza sanitaria, infrastrutture e distribuzione degli aiuti.
Nato a Riyadh nel 1982, ha vissuto prima a Damasco per poi trasferirsi in Iraq nel 2003, dove si unì ad al-Qaeda, vicino ad Abu Bakr al-Baghdadi, capo delll’Isis. Nel mezzo un arresto da parte Usa. Un’evoluzione che poggia sulla fusione avvenuta sette anni fa tra migliaia di combattenti in fuga da Aleppo e il gruppo di suoi fedelissimi. Insieme diedero vita all’HTS con l’obiettivo di tranciare il legame amministrativo con la famiglia Assad e bonificare la Siria dalle milizie iraniane. Oggi HTS dice di voler prendere le distanze dalle più ampie ambizioni dell’IS di un califfato globale.
Il passaggio sull’Iran, che porta in dote la contrapposizione tra sciiti e sunniti, è rilevante per agganciare i fatti siriani alle strategie dei vicini, primo fra tutti la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, scaltro nel preparare anche politicamente il terreno per un cambiamento radicale e al contempo gestire (non solo internamente) il dossier curdo, legato a quella fascia di terre e influenze che idealmente compongono il Kurdistan.
Il disegno erdoganiano
Ankara ha annunciato di volersi assumere la responsabilità di garantire unità e sicurezza a Damasco. Il progetto di Erdogan è chiaro e si concentra i tre punti: ricostruzione, rifugiati, occidente. Le imprese turche si stanno già mobilitando per la stagione della ricostruzione in Siria, un paese che porta ben visibili i segni della guerra civile. Oggi si registra un rialzo delle azioni delle aziende edili e cementiere, spinte dalle aspettative che trarranno beneficio dalla ricostruzione. Il ministro degli Esteri Hakan Fidan ha assicurato che la Turchia si impegnerà affinché i migranti siriani che ospita possano tornare a casa sani e salvi. Quindi avranno bisogno di nuove città e nuove infrastrutture.
Da questa mattina i primi siriani che avevano cercato rifugio in Turchia durante la guerra civile hanno iniziato a tornare in patria tramite il valico di frontiera di Cilvegözü a Hatay, nella provincia sud-orientale della Turchia.
Fonti americane parlano di dialoghi già avviati tra gli Stati Uniti e funzionari turchi dal momento che l’attenzione di Washington è rivolta a una “nuova Siria”. Il riferimento è alle recenti conversazioni tra alti funzionari statunitensi, tra cui il segretario alla Difesa Lloyd Austin, il direttore della Cia Bill Burns e il segretario di Stato Antony Blinken, e i loro omologhi turchi per una transizione che non lasciata al caso. L’esercito statunitense è presente nella Siria settentrionale con quasi mille soldati, vicini allo YPG, l’ala siriana del PKK che vorrebbe aprire un corridoio lungo i confini meridionali della Turchia. Usa e Turchia su questo punto dissentono, da anni. Inoltre Israele ha effettuato centinaia di attacchi aerei in Siria colpendo siti militari collegati all’Iran e agli Hezbollah del Libano, entrambi stretti alleati di Assad.
La risposta europea
Il quadro è limpido: dopo i vari tentativi effettuati sulla guerra in Ucraina, ora Erdogan intravede in Siria la reale possibilità di essere non semplice mediatore, ma garante di stabilità e sicurezza per via della sua vicinanza geografica, capacità di penetrazione (come fatto in Libia) e dialogo con quei paesi del golfo che sono attivi nella partita sul futuro di Damasco. Se le mosse turche sono evidenti, e già da settimane prevedibili, quelle europee sono un punto interrogativo perché dovranno essere ragionate ed efficaci.
Bruxelles è attesa da una fase analitica altamente complessa sulla Siria, perché deve prevedere, con netto anticipo, il possibile effetto domino del dopo Assad su dossier connessi, come quello migratorio. Nel 2016 ci fu l’accordo miliardario con Erdogan deciso da Angea Merkel, e non si sa ancora quanti di quei 5 milioni di profughi detenuti si suolo turco faranno davvero ritorno in Siria o, se le condizioni minime tarderanno a verificarsi, potrebbero essere tentati di andare più a occidente. In secondo luogo l’Ue è chiamata a preparare una strategia complessiva sulla Siria che tocchi anche il capitolo curdo, le risposte riflesse dell’Iran e gli interessi a cavallo tra Golfo e Russia.
La neo commissaria agli affari esteri Kaja Kallas è attesa da una sfida gravosa. Come ad esempio l’intreccio con il tavolo sull’Ucraina, le aspirazioni di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, e ovviamente le decisioni della Casa Bianca.