Francesco ha voluto dimostrare il suo attaccamento alla Francia e quindi alle periferie che sono anche francesi, recandosi ad Ajaccio, pochi giorni dopo l’inaugurazione della cattedrale di Notre Dame. E possiamo dire che sia stato un bene, un’occasione che si può sperare che “laici” e “credenti” scelgano di non sprecare. La riflessione di Riccardo Cristiano
Certamente quella di Francesco sarà una grande considerazione per la Francia, la cultura francese. Ma la cosiddetta “grandeur” che tanti, a volte polemicamente, attribuiscono ai francesi è plausibile che a Francesco non appartenga. E così ha voluto dimostrare il suo attaccamento alla Francia e quindi alle periferie che sono anche francesi, recandosi ad Ajaccio, pochi giorni dopo l’inaugurazione della cattedrale di Notre Dame. E possiamo dire che sia stato un bene, un’occasione che si può sperare che “laici” e “credenti” scelgano di non sprecare.
Perché ad Ajaccio, all’inizio del suo discorso sul tema prescelto per l’incontro al quale era stato invitato ed è intervenuto, ha detto: “Sono passati più di duemila anni dall’Incarnazione del Figlio di Dio e tante sono state le epoche e le culture che si sono succedute. In alcuni momenti della storia la fede cristiana ha informato la vita dei popoli e le sue stesse istituzioni politiche, mentre oggi, specialmente nei Paesi europei, la domanda su Dio sembra affievolirsi e ci si scopre sempre più indifferenti nei confronti della presenza e della sua Parola. Tuttavia, bisogna essere cauti nell’analisi di questo scenario, per non lasciarsi andare in considerazioni frettolose e giudizi ideologici che, talvolta ancora oggi, contrappongono cultura cristiana e cultura laica. Questo è uno sbaglio! Al contrario, è importante riconoscere una reciproca apertura tra questi due orizzonti: i credenti si aprono con sempre maggiore serenità alla possibilità di vivere la propria fede senza imporla, viverla come lievito nella pasta del mondo e degli ambienti in cui si trovano; e i non credenti o quanti si sono allontanati dalla pratica religiosa non sono estranei alla ricerca della verità, della giustizia e della solidarietà, e spesso, pur non appartenendo ad alcuna religione, portano nel cuore una sete più grande, una domanda di senso che li conduce a interrogare il mistero della vita e a cercare valori fondamentali per il bene comune”.
Sia l’apertura dei primi che quella dei secondi esistono ma vanno confermate da loro stessi, e la cosa migliore per farlo sarebbe cominciare dal riconoscerla, e quindi riconoscersi, a partire non da sé ma dagli altri. Vorrebbe dire che un altro muro di Berlino cadrebbe abbattuto però da entrambe le parti. Ed è decisivo in questo ciò che il papa dice di chi non crede, o si professa agnostico, o comunque si è allontanato dalla pratica religiosa. A questo muro si ricorre sempre più frequentemente per creare “ideologie” in urto, incompatibili.
In un tempo di mutamenti tumultuosi che spesso producono nuovi identitarsimi, nuove chiusure, quello del papa è un riconoscimento che può apparire limitativo definire “invito a una sana laicità”, ma, appunto, un’apertura al cuore, all’essenza dell’etica dell’altro. Ciò che accade sempre più raramente in questo tempo segnato dal bisogno quasi fisico ma certamente ideologico di muri.
Venendo alla pietà popolare, il papa ne ha spiegato il significato profondo, a lui da sempre molto caro, dai tempi di Buenos Aires: “La pietà popolare, esprimendo la fede con gesti semplici e linguaggi simbolici radicati nella cultura del popolo, rivela la presenza di Dio nella carne viva della storia, irrobustisce la relazione con la Chiesa e spesso diventa occasione di incontro, di scambio culturale e di festa – è curioso: una pietà che non sia festosa non ha “un buon odore”, non è una pietà che viene dal popolo, è troppo “distillata” –. In questo senso, le sue pratiche danno corpo alla relazione con il Signore e ai contenuti della fede. Mi piace ricordare, a questo proposito, una riflessione di Blaise Pascal, che in un dialogo con un interlocutore fittizio, per aiutarlo a capire come giungere alla fede, dice che non basta moltiplicare le prove dell’esistenza di Dio o fare sforzi intellettuali; piuttosto, bisogna guardare a coloro che sono già progrediti nel cammino, perché essi hanno iniziato a piccoli passi, «prendendo l’acqua benedetta, facendo dire delle messe» (Pensieri, in Opere complete, Milano, 2020, n. 681). I piccoli passi che ti portano avanti. La pietà popolare è una pietà che viene coinvolta con la cultura, ma non confusa con la cultura. E fa dei piccoli passi.
Ecco allora una cosa da non dimenticare: «Nella pietà popolare si può cogliere la modalità in cui la fede ricevuta si è incarnata in una cultura e continua a trasmettersi», e quindi in essa «è sottesa una forza attivamente evangelizzatrice che non possiamo sottovalutare: sarebbe come disconoscere l’opera dello Spirito Santo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 123; 126), che lavora nel santo Popolo di Dio, lo porta avanti nei discernimenti quotidiani. Pensiamo al diacono Filippo, poveretto, che un giorno è stato portato [dallo Spirito] su una strada e ha sentito un pagano, un servo della regina Candace di Etiopia, leggere il profeta Isaia e non capiva nulla. Si è avvicinato: “Tu capisci?” – “No”. E gli ha annunciato il Vangelo. E quell’uomo, che aveva ricevuto la fede in quel momento, arrivando dove c’era acqua dice: “Mi dica Filippo, lei mi può battezzare, adesso, qui, che c’è l’acqua?”. E Filippo non ha detto: “No, deve fare il corso, deve portare i padrini, tutti e due sposati nella Chiesa; deve fare questo…”. No, lo ha battezzato. Il Battesimo è proprio il dono della fede che Gesù ci dà”.
Si tratta dunque di mantenere una cultura, non di convertire. Di mantenere viva una cultura profonda, popolare appunto, che si radica quindi nella solidarietà.