Il mondo guarda al 20 gennaio 2025 quando si insedierà The Donald alla Casa Bianca. Da quel momento scatterà il countdown per chiudere la guerra tra Kyiv e Mosca. Non ci sarà la cosiddetta e male interpretata “pace giusta” ma prevarrà la filosofia del nuovo comandante in capo, comunque e sempre american first. A quel punto si sveleranno le debolezze dell’Unione europea, di Zelensky e di Putin. L’opinione di Maurizio Guandalini
Con la disperata dichiarazione di Volodymyr Zelensky che rinuncia al Donbass e alla Crimea, si ritorna da capo. E va in soffitta la pace giusta. Perché è un concentrato ideologico simile alla pronuncia di quegli slogan cantilenanti a sostegno di soufflé di pareri, come “senza se, senza ma” oppure “ce lo chiede l’Europa” e altri simili, che salvano la coscienza di chi li dice ma, a proposito della pace giusta, i veri maestri della realpolitik sanno che una pace tra due contendenti non sarà mai giusta, ma deve lasciare insoddisfatti entrambi per chiudere al meglio l’accordo. Che è e sarà sempre un compromesso (come avviene tra mercanti).
Scusiamo, quindi, gli avventizi raccolti in una filiera sparsa e autorevole per lo strabismo perseverante, riecheggiato anche in questi giorni a Bruxelles, che però non fa altro che aggravare lo stato delle cose. Ci voleva Donald Trump, che non ha mai pronunciato “pace giusta”, per rimettere a posto il caos e salvare dall’impasse l’Europa, l’imbarazzo dei leader e delle nazioni, a uscire dal caos del conflitto russo-ucraino, soluzione mai ricercata per inerzia di un soggetto politico in evidente decadenza di ruolo. Si è visto alla prima occasione di un probabile accordo di pace, che poteva concludersi a un mese dall’invasione russa, quando Vladimir Putin credeva ancora nell’obiettivo di prendersi tutta l’Ucraina. L’Europa non avrebbe fatto la figura minore odierna, auto-eliminatasi da ogni funzione nel cammino verso il fine guerra che verrà, prona a dopare una guerra sprofondata nella fallace ipotesi, da parte degli ucraini, di vincerla. Infatti, oggi lo score segna centinaia di migliaia di morti, una nazione che non c’è più e un Putin in posizione di forza.
In questi anni noi siamo tra quelli che hanno messo da parte le lezioni facili della lotta di civiltà superiori, da imitare, modello occidentale, naturalmente, convinti del valore di diatribe inutili che comunque richiedono il fisico di chi le fa. Di chi le conduce. E non ci pare di aver visto e vedere figure in grado di condurre chissà che. Si è preferito mettere in piedi un’armata brancaleone e buttarsi dentro un conflitto con un impegno minore, altalenante, poco convinto, intriso di slogan paternalistici e compassionevoli (la pace giusta è uno di questi), aggregandosi sempre e comunque, acriticamente, a Zelensky quando annunciava un giorno sì e l’altro pure una vittoria imminente o l’esatto suo contrario.
Storicizzare gli avvenimenti è elementare. Aspettiamo che i leader europei ammettano i motivi delle crisi politica, sociale ed economica odierna (di Francia e Germania in particolare), che sono da ricercare nell’approssimazione e nelle ingenuità dell’approccio manifestato all’inizio del conflitto. Quando si spargevano certezze basate su supposizioni che Putin sarebbe caduto da lì a poco, che era un criminale da arrestare e processare, che le sanzioni alla Russia avrebbero spazzato via i loro capi e così avrebbe trionfato la libertà. Atteggiamenti che, in un invasivo disordine mondiale raggiunto, lasciavano presagire un’Europa che avrebbe fatto a meno della Russia. Lo constatiamo, in una visione prossima ventura di ricomposizione degli equilibri mondiali, che dovranno portare a smussare le divergenze, i conflitti aperti; la Russia, lo stesso Putin, saranno seduti tra i protagonisti del prossimo ordinamento continentale. Quindi, con il leader del Cremlino qualcuno dell’Europa deve parlare. Confrontarsi.
Trump, l’abbiamo già scritto su Formiche.net, ha scoperto l’acqua calda. Il dialogo. Parlerà con Putin. Il contrario di quello che ha fatto l’Europa e i suoi leader (giusto una telefonata recente di Olaf Scholz e, agli inizi, il tavolo lungo del Cremlino con Emmanuel Macron) che hanno preso una parte, di fatto entrando immediatamente in guerra contro la Russia. Qui nessuno esalta le magnifiche sorti e progressive, semmai ve ne fossero, del leader del Cremlino, ma l’andamento contemporaneo della storia ci insegna che l’incontro tra Paesi e leader con visioni diverse è il solo modo di rappresentare nazioni ispirate dalla condotta del buon padre di famiglia.
L’Europa si è immersa nel conflitto russo-ucraino con approssimazione, per poi smarrirsi, non trovare la via d’uscita, perché rompi di qua, rompi di là, stai sul mezzo, non reagisci, stai a guardare. Gli interlocutori ne comprendono la fragilità. E quindi l’ultronea presenza.
Oggi dobbiamo dire: grazie, Trump. Lo vedremo all’opera fra qualche settimana. È banale dedurre che Trump bada al sodo. Non fa mai niente per niente. Lo abbiamo sentito in questi giorni, come ha trattato l’Europa: mette meno dazi se prendiamo gas e petrolio dagli Stati Uniti e portiamo le spese militari nella NATO al 5% del prodotto interno lordo. Un mix tra commercio e cinismo, sei dentro-sei fuori – il boss ha sempre ragione (la trasmissione The Apprentice di NBC, che Trump ha presentato per diversi anni), tenendo fede al verbo guida del neopresidente degli States: America First. Cosa vede Trump? Sa, per esempio, che tirerà fuori l’Europa dal melange della guerra ucraina, stretta dalle opinioni pubbliche stressate e stanche di spendere soldi in armi. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, si prepari: il conto sarà salato. Di fronte, The Donald troverà un Putin che è arrivato primo, ma non ha vinto la guerra che aveva in mente lui e dice di trattare solo dopo che in Ucraina si svolgeranno le elezioni. E infine un Zelensky, scaduto nella carica di presidente, che non ha più il sostegno della sua gente e che non sarà lui il leader di un’eventuale Ucraina-cuscinetto, ma al quale i leader europei, tutti, si sono aggrappati senza aver mai fatto un check sulla situazione interna di quel Paese, sugli umori del popolo, sui cambi continui di ministri e decisioni prese in gruppi ristretti (si legga a tal proposito un’intervista di Lorenzo Cremonesi sul Corriere all’intellettuale di Odessa, Yaroslav Hrytsak: “Zelensky perde consensi perché non ci dice la verità. Ci tratta come bambini”).
Gli occhi guardano al 20 gennaio, quando finalmente avverrà il cambio della guardia alla Casa Bianca. E quello che più di tutti sente che la situazione gli sfugge di mano è Zelensky, lanciato nel “Per la pace ci serve l’aiuto degli USA. Putin è pazzo, gli piace uccidere”. Premesse non semplici per Trump che, da buon giocatore di poker, sa che sta assistendo alla fase preflop, quella dei rilanci forti, per poi passare alla fase postflop, dei rilanci contenuti. Lì entrerà in scena il presidente degli Stati Uniti con il check-raise al river, una mossa che scombussolerà le carte in tavola, la più forte perché chi la fa sta dicendo di avere la mano migliore. Speriamo non sia un bluff.