Il caso del conflitto in Ucraina è un tragico emblema di come funzionino (o non funzionino affatto) alcune delle principali dinamiche nel sistema internazionale. Ma anche una preziosa lezione per il futuro. Formiche.net ne ha parlato con Allan Myer (Frankel Foundation), Dima Adamsky (Idc Herzliya), e Mariana Budjeryn, Steven Miller, Francesca Giovannini (Harvard)
“Sessant’anni fa mi trovavo a Treviri, una cittadina tedesca sul fiume Mosella, vicino al confine con il Lussemburgo. Ero lì come giovane ufficiale, e dovevo effettuare una visita di controllo a un bunker. In una mano avevo le chiavi, nell’altra una tabella con scritti numeri di serie delle trentadue testate nucleari, con una potenza che spaziava dai due ai dieci ai trenta chilotoni, custodite dentro quel bunker. Immaginate di aprire un bunker per la prima volta nella vostra vita dopo aver sentito parlare di armi nucleari, aver letto al riguardo, averle studiate. Fino a che qualcuno vi dice ‘Controllate i numeri di serie’, perché quando avete finito di farlo, firmate letteralmente sulla linea di fondo del documento e ne divenite letteralmente i proprietari”.
A pronunciare queste parole è Allan Myer. Oggi Myer è responsabile della Frankel Foundation, e in passato è stato portavoce del presidente statunitense Ronald Reagan. Ma sessant’anni fa era il consulente nucleare della prima divisione corazzata francese. Aveva poco più di vent’anni. Se il Patto di Varsavia avesse lanciato l’attacco contro la Nato, sarebbe stato Myer a dover decidere se usare quelle trentadue testate per difendere il Fulda Gap. “Ogni due settimane mi recavo a controllare i trentadue ordigni. Erano di colore grigio chiaro. Erano minacciosi solo a guardarli. E questo è stato fondamentale. Toccare con mano lo strumento di deterrenza è la chiave della deterrenza stessa”.
Myer è parte di una delegazione di accademici e professionisti, con i quali Formiche.net ha avuto occasione di incontrarsi per sentire la loro opinione su come la sicurezza internazionale, e in particolare le logiche di deterrenza citate proprio da Myer, si siano evolute al giorno d’oggi. Partendo, ovviamente, dal conflitto in Ucraina. O meglio, dai mesi antecedenti al conflitto, quando ammassando uomini e munizioni al confine la Russia ha inviato un ultimatum all’Ucraina, agli Stati Uniti e all’Europa, per chiedere un rimodellamento dell’architettura della sicurezza internazionale. “Nel lessico russo è quella che si definisce ‘coercizione non forzata’. Stavano minacciando, sperando che in risposta gli Stati Uniti, l’Ucraina e l’Europa avrebbero accolto le loro richieste. Cosa che non è avvenuta. Poi quando si sono resi conto che con la ‘coercizione non forzata’ non potevano fare nulla, sono passati alla ‘coercizione forzata’. E il 24 febbraio del 2022 hanno dato inizio all’invasione”, spiega Dima Adamsky, professore presso la School of Government dell’Idc Herzliya ed esperto di cultura strategica russa. Secondo Adamsky, dopo l’invasione Mosca ha cercato di esercitare deterrenza nei confronti di un intervento occidentale, con pieno successo nel caso di un intervento diretto e con risultati misti in quello indiretto: infatti, anche se l’Occidente ha effettivamente fornito aiuti a Kyiv, il Cremlino ritiene di aver influenzato la qualità e la quantità degli stessi.
È giusto dire che la deterrenza ha fallito? Forse non è proprio corretto, data l’assenza nel contesto ucraino di una forma di deterrenza concreta. E proprio l’assenza di una forte deterrenza ha permesso che l’esercito russo lanciasse l’invasione su larga scala. Da quando nel 1994 Kyiv ha volutamente rinunciato al suo arsenale nucleare, ricorda l’esperta di relazioni Ucraina-Russia e dottrina nucleare russa Mariana Budjeryn, “l’Ucraina è questo vasto spazio dell’Europa centrale che non è coperto da reali strumenti deterrenti di alcun tipo, nucleari o meno”. Non stupisce dunque che dopo la deflagrazione del conflitto si siano moltiplicate le richieste di garanzie deterrenti (convenzionali o meno) da parte di alcuni Paesi partner degli Stati Uniti, come la Corea del Sud e la Polonia. “La triste storia vissuta dall’Ucraina negli ultimi anni, assieme al suo background nucleare, sono fonte di pressione verso la proliferazione globale. Nessuno vuole essere come l’Ucraina. Anche se l’Ucraina, con tutto il coraggio, la perseveranza e la solidarietà occidentale, riuscirà a prevalere, registra la morte di una persona su dieci, un’intera generazione di bambini è traumatizzata, migliaia di donne vittime di stupri di gruppo. E milioni di emigrati. Chi vuole avere un simile destino?”.
Durante la conversazione emerge però un altro punto: cosa è stato fatto dal 1994 in poi per sviluppare un sistema di deterrenza in Ucraina? A sollevare la questione è il professor Steven Miller, direttore del programma del programma di International Security presso il Belfer Center for Science and International Affairs della Harvard Kennedy School, che propone una riflessione su come l’Ucraina non sia riuscita nei tre decenni trascorsi dal memorandum di Budapest a sviluppare una “porcupine strategy”, ovvero una capacità di difesa convenzionale in grado di infliggere danni così insostenibili ad un eventuale invasore da prevenire l’aggressione effettiva. Proprio su questo tipo di strategia Taiwan fa leva per scoraggiare mosse avventate da parte di Pechino. “Sotto Yanukovych, le cui posizioni filo-russe erano note, ci sono stati sforzi di carattere simbolico per sviluppare una capacità di difesa. Ma nella realtà queste sono state pesantemente trascurate”, riflette Miller, “e il risultato è stato che le capacità di cui l’Ucraina disponeva nel 2014 erano molto inferiori a quelle che avrebbe potuto effettivamente avere”.
E se non si può parlare di fallimento della deterrenza in Ucraina, poiché Kyiv non disponeva degli asset necessari ad esercitarla, diversa è la questione della deterrenza esercitata dall’Occidente. Una deterrenza la cui efficacia non è stata inficiata da un’asimmetria di capacità, quanto da una di risolutezza. Concetto che Francesca Giovannini, Executive Director del Project on Managing the Atom presso il Belfer Center for Science & International Affairs della Harvard Kennedy School e Adjunct Associate Professor presso la Fletcher School of Law and Diplomacy della Tufts University, argomenta piuttosto chiaramente: “Oggi la deterrenza riguarda in gran parte l’accumulo di hardware e capacità, ma non abbastanza la ricerca di nuovi modi per mostrare una reale risolutezza. I russi hanno sempre creduto che la Nato fosse di gran lunga superiore sul piano convenzionale. Ma allo stesso tempo credono che non abbiamo la determinazione per combattere davvero qualora la situazione lo richiedesse. Abbiamo sempre, sempre, sempre posto l’accento sul fatto che siamo un’alleanza difensiva, e l’idea generale è che siamo pronti a combattere se necessario, ma negli altri casi non ci impegneremmo mai in un conflitto. I russi lo hanno capito molto bene. E hanno sfruttato questa asimmetria di volontà a loro vantaggio”. Con le reazioni occidentali a quanto avvenuto in Crimea e in Donbass sin dal 2014 che per Mosca sono state come una cartina al tornasole dell’interesse occidentale di mettersi in gioco per contrastare l’espansionismo moscovita. “Nel 2022 c’è stato un reset in questo senso. Ma è arrivato troppo tardi”.