Attenzione ai tentativi di attribuire agli Stati Uniti (che pretendono l’estradizione di Abedini) una corresponsabilità nel sequestro della giornalista italiana. L’opinione di Giuliano Cazzola
Rende onore a lei e al Paese la determinazione con cui Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, ha intrapreso la missione in Florida per sciogliere vis à vis con Donald Trump uno dei nodi che consentano di liberare la giornalista Cecilia Sala dalla condizione di sofferenza a cui è sottoposta, seppur il padrone di casa, in quanto soltanto presidente eletto, non può occuparsi di dossier specifici sino all’insediamento (il 20 gennaio prossimo).
Lo scopo dell’incontro è evidente: quello di ribadire che un eventuale rilascio dell’ingegnere svizzero-iraniano Mohammad Abedini, arrestato in Italia su mandato internazionale statunitense, corrisponde a un caso di forza maggiore e non intende mettere sullo stesso piano l’azione giudiziaria adottata dalle autorità di uno Stato di diritto con l’arbitrio di un sequestro di persona senza alcuna giustificazione plausibile. È vero che, in questi tempi cupi, la Corte internazionale di giustizia mette sullo stesso piano il premier di un Paese democratico e il capobanda di una congrega di terroristi assassini, che le Nazioni Unite sono diventate il postribolo degli Stati canaglia, che vasti settori delle opinioni pubbliche occidentali sono affetti da una forma grave della Sindrome di Stoccolma, che si cerca ogni possibile giustificazione per i misfatti compiuti dai tiranni, che vengono rappresentati come comprensibili reazioni, ma evidentemente dando seguito alla missione nel buen retiro del presidente eletto e prossimo a entrare in carica, il governo italiano non intende prestarsi a questa distorsione dei fatti e delle regole.
Se non altro, Meloni ha potuto anticipare le esortazioni che qualche conduttrice maliziosa le avrebbe rivolto (al ritorno delle vacanze invernali) in quanto “amica di Trump”, allo stesso modo di come era definita “amica di Viktor Orbán’’ nella vicenda di Ilaria Salis (il cui padre dovrebbe prendere lezioni di stile e dignità dalla madre di Cecilia).
Era già in corso un tentativo di attribuire agli Stati Uniti (che pretendono l’estradizione dell’ingegnere svizzero-iraniano accusato di terrorismo) una corresponsabilità nel sequestro di Sala, tanto che si parlava nei talk show di “un’Italia nella morsa di due ricatti’’, mettendo sullo stesso piano la richiesta di estradizione formale degli Stati Uniti, secondo le leggi internazionali, e il sequestro di Sala da parte dell’Iran, senza che neppure quel simulacro di magistratura iraniana fosse al corrente.
In tale contesto si è distinta Elena Basile, che ha esposto le sue opinioni sul caso Cecilia Sala in un articolo sul Fatto Quotidiano di sabato scorso. Una persona che stimo mi ha rimproverato per aver letto e fatto “circolare le elucubrazioni della Basile”. Ho ritenuto, però, che fosse doveroso replicare alla diffusione di quel testo.
Cominciamo da come viene definita Cecilia Sala: “una giovane giornalista mandata allo sbaraglio e insufficientemente protetta dal suo giornale’’. A queste singolari affermazioni risponderà, se lo ritiene, Claudio Cerasa. Il suo arresto è stato “criminale’”. Attenzione però: lo stesso giudizio vale per quello di “un imprenditore che vendeva tecnologia a Teheran’’, con la quale erano stati uccisi soldati americani dai Pasdaran. A questo punto dilaga l’intolleranza di Basile, la quale se la prende con i manager di Leonardo, con i ministri degli Esteri dell’Unione europea che non hanno deciso di bloccare la fornitura di armi a Israele. Da qui l’articolista prende le mosse per denunciare il genocidio dei palestinesi e per accusare i Paesi europei di finanziare istituti di ricerca che pubblicano dati in violazione dell’autodeterminazione dei popoli che, come in Georgia e in Romania, hanno scelto liberamente i governi filoputiniani e sono accusati di brogli inesistenti. Mentre in Europa – dove vengono finanziate “rivoluzioni colorate’’ e organizzati colpi di Stato – sono malvisti e perseguitati i governi ungheresi e slovacchi perché non si prestano alla campagna anti-Putin. Poi se la prende con le celle americane, che a suo avviso sarebbero altrettanto crudeli di quelle di Evin dove è rinchiusa Cecilia. Indubbiamente avrà i suoi buoni motivi per un’affermazione così osé.
Ricordo però che quando Silvia Baraldini venne “liberata’’ dal governo D’Alema ed estradata in Italia si lamentò delle condizioni carcerarie se messe a confronto con quelle di cui usufruiva negli Stati Uniti.
Certamente Basile avrà delle informazioni, ma mi resta il dubbio che si riferisca, sbrigativamente, a quanto delle carceri americane ha mostrato il cinema hollywoodiano che non mai esitato, senza subire alcuna censura, a rappresentare le violenze e gli abusi che avvengono nel sistema carcerario. Almeno sarà il caso di riconoscere una trasparenza che in Iran comporterebbe l’impiccagione degli attori e dei registi. Quanto alla pena di morte nella “America profonda” nessuno la nega (il presidente Joe Biden prima di andarsene, è intenzionato a tramutare in ergastolo tutte le pene capitali), ma a stabilire le esecuzioni sono le sentenze di regolari tribunali che riconoscono in vari gradi di giudizio il diritto all’imputato di difendersi. E quanto meno vengono risparmiati gli spettacoli degli impiccati appesi alle gru (comprese le donne e i minori).
Auguriamoci che il caso Sala si risolva al più presto, senza andare troppo per il sottile e prima di dover assistere, da noi, a manifestazioni per la libertà di Abedini davanti all’ambasciata americana.