Si spiega così, in chiave anticinese, l’uscita di Donald Trump sul Groenlandia. L’obiettivo, dunque, è aprire una nuova rotta commerciale che dimezzerebbe i tempi di percorrenza tra Asia ed Europa. Una rotta alternativa a quelle tradizionali, come quella che passa dal Mar Rosso, soggette al controllo della marina militare statunitense. Il corsivo di Cangini
Quando, nei giorni scorsi, Donald Trump ha lanciato la sua apparente e apparentemente sconclusionata opa sulla Groenlandia, alla mente sono riaffiorati i ricordi di un’interessante missione che la commissione Difesa e sicurezza dell’Assemblea parlamentare della Nato realizzò nel novembre 2023 in Norvegia, paese artico.
Nessuno di noi aveva, colpevolmente, riflettuto abbastanza sulle conseguenze geopolitiche e strategiche che deriveranno dallo scongelamento dei ghiacci artici.
Nessuno di noi aveva ben chiaro il ruolo che la Cina esercitava ormai da anni in quell’area del mondo solo apparentemente periferica.
Incontrammo ministri e uomini dell’intelligence, balzò subito agli occhi chi di loro fosse a libro paga cinese. Confidenzialmente, mi fu spiegato che “non c’è paese artico il cui governo e i cui apparati di sicurezza non siano infiltrati da almeno un uomo indissolubilmente legato agli interessi di Pechino, magari via Mosca”.
La Cina dista 1500 chilometri da quell’area, eppure, soprattutto grazie alla benevolenza Russia, nel 2013 è entrata nel Consiglio artico (l’organismo internazionale di cui fanno parte Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Svezia e Stati Uniti) come “membro osservatore”.
L’anno successivo, Xi Jinping definirà per la prima volta la Cina una “grande potere polare”. Da allora, in quell’area, la Cina ha concluso importanti accordi con la Russia sull’energia, sulle ricerca e sulla progettazione e costruzione di nuovi navi porta container di classe ghiaccio.
Perché tanto interesse per un’area del mondo così lontana e apparentemente marginale? Perché, grazie al riscaldamento globale, a breve il Mar Artico diventerà quasi interamente navigabile. Non manca molto: negli ultimi quarant’anni la copertura glaciale si è ridotta del 40% e lo spessore dei ghiacci del 70.
L’obiettivo, dunque, è aprire una nuova rotta commerciale che dimezzerebbe i tempi di percorrenza tra Asia ed Europa. Una rotta alternativa a quelle tradizionali, come quella che passa dal Mar Rosso, soggette al controllo della marina militare statunitense.
Una rivoluzione, dal punto di vista degli equilibri, degli interessi e degli assetti geopolitici e strategici. Non solo.
Nei fondali artici si trova quasi un decimo del petrolio mondiale, un quarto del gas naturale, oltre ad importanti giacimenti di uranio e di terre rare, essenziali per le telecomunicazioni e la costruzione di batterie elettriche. Chi controlla l’Artico, dunque, controlla il futuro. Si spiega così, in chiave anticinese, l’uscita di Donald Trump sul Groenlandia.
Un’uscita violenta, perché questo è lo stile dell’Uomo. Anche se a ricostruirne la dichiarazione si capisce che il prossimo presidente americano non ha affatto inteso annunciare una guerra alla Danimarca (membro della Nato da cui dipende la Groenlandia): l’ipotesi di usare la forza era contemplata dalla domanda cui Trump ha risposto.
Nessuno può, pertanto, ragionevolmente pensare che gli Stati Uniti intendano muovere guerra alla Danimarca per il controllo della Groenlandia. Più realistico immaginare che, con lo stile pirotecnico e guascone che gli appartiene, Donald Trump abbia inteso attirare l’attenzione del mondo su un problema già denunciato anni fa dal Segretario di Stato del suo primo governo, Mike Pompeo, il quale notò con comprensibile allarme che il Mar Artico stava pericolosamente somigliando al “Mare cinese”.