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Dieci anni da Charlie Hebdo. Il terrorismo in Europa spiegato da Bertolotti

L’insurrezionalismo in Afghanistan e l’appello di Hamas a colpire Israele e i suoi alleati hanno svolto un ruolo determinante nella ripresa di un terrorismo ispirato ed emulativo. Elementi a cui si somma l’entusiasmo della galassia jihadista conseguente alla vittoria degli islamisti in Siria, che bene sono riusciti a mascherarsi agli occhi degli occidentali attraverso un pragmatico opportunismo. L’analisi di Claudio Bertolotti, direttore di Start Insight

Il 7 gennaio 2015, dieci anni fa, un attacco terroristico colpì la redazione parigina di Charlie Hebdo, lasciando dietro di sé una scia di sangue e dodici vittime. I due assalitori, vestiti di nero, irruppero negli uffici del giornale satirico, aprendo il fuoco come ritorsione per le vignette su Maometto.

L’attacco, rivendicato dalla branca yemenita di al-Qaʿida (Ansar al-Sharia), si inserisce in una lunga sequenza di attentati terroristici che hanno colpito l’Europa dopo il 2001. Eventi come quelli di Madrid nel 2004, Londra nel 2005 e Bruxelles nel 2014 fanno parte di questa tragica scia. E tanti altri che sono seguiti nei dieci anni intercorsi da allora: da Nizza e Berlino nel 2016 a Brokstedt e Magdeburgo in Germania nel 2023 e 2024 e, più recentemente, in Italia.

Dopo l’attacco a Charlie Hebdo e l’omicidio del poliziotto Ahmed Merabet, i due terroristi jihadisti, i fratelli Saïd e Chérif Kouachi, si diedero alla fuga nascondendosi nei boschi a nord del Paese. Il 9 gennaio, individuati dalle forze di polizia e militari, furono eliminati. Lo stesso giorno, Amedy Coulibaly, complice dei fratelli Kouachi e affiliato allo Stato Islamico, dopo aver ucciso una poliziotta il giorno precedente, si barricò in un supermercato kosher a Parigi dove massacrò quattro ostaggi, prima di essere eliminato dalla polizia. Successivamente emerse che l’attacco era parte di un piano più ampio, con altri complici fuggiti verso la Siria.

L’11 gennaio 2015, milioni di persone si riversarono per le strade di Parigi per manifestare solidarietà: una marcia, a difesa della libertà di espressione, a cui parteciparono leader mondiali e rappresentanti di varie nazioni.

Pochi giorni dopo, il nuovo numero di Charlie Hebdo, realizzato dai sopravvissuti, venne distribuito in milioni di copie in tutto il mondo, sottolineando l’importanza della libertà di stampa.

L’attacco del 7 gennaio 2015, evento spartiacque che ha dato il via alla violenza del nuovo terrorismo in Europa, fu un atto di natura politica e segnò l’inizio di una serie di attentati che avrebbero sconvolto la Francia (e l’Europa) nei mesi successivi.

Nel 2020, il processo per l’attacco a Charlie Hebdo si concluse con 14 condanne, segnando un passo importante nella lotta contro il terrorismo. Un’ulteriore processo, più recente, portò nel 2024 alla condanna di Peter Cherif, affiliato ad al-Qa’ida nella Penisola Arabica (AQAP) e accusato di essere “l’architetto” dell’attacco.

A dieci anni di distanza, Charlie Hebdo resta un simbolo della libertà di espressione, resistente alle minacce e alla violenza.

Il terrorismo oggi: opportuna riflessione

Il terrorismo jihadista si impone come una minaccia ideologica diffusa, collegata alle dinamiche storiche, conflittuali, delle relazioni internazionali e della competizione in Medio Oriente, in Africa e alla violenza discendente dalla lettura radicale dell’Islam; una dinamica conflittuale che oggi si associa sempre più spesso alla ricerca di identità di gruppi e individui attraverso l’opposizione culturale di una componente non marginale degli immigrati maghrebini di seconda e terza generazione in Europa, ma con una crescente componente di immigrati di prima generazione, spesso giunti in Europa da poco tempo. E parliamo di una galassia jihadista frammentata e caratterizzata da diverse ideologie e approcci pratici, tanto da indurre una riflessione sul concetto di terrorismo contemporaneo che si impone come fenomeno sociale molto diverso dai terrorismi che lo hanno preceduto; con ciò invitando a un cambio di paradigma nella stessa definizione di terrorismo: non più un’azione volta ad ottenere risultati politici attraverso la violenza, dunque nelle intenzioni; bensì intesa come l’effetto della violenza applicata. È così il terrorismo diviene manifestazione di violenza, priva di un’organizzazione alle spalle: è terrorismo nella manifestazione, non nell’organizzazione.

All’interno della stessa galassia jihadista, il terrorismo si impone come strumento di lotta, e lo fa con diversi gradi e modelli di violenza: da quella individuale, a quella organizzata, a quella ispirata e ancora al terrorismo insurrezionale che ben abbiamo conosciuto in Afghanistan, in Iraq e, in parte, stiamo osservando nelle sue manifestazioni nella Striscia di Gaza dove l’esercito israeliano si confronta con Hamas e, ancora, nella Siria post Bashar al-Assad in mano agli islamisti radicali di Hay’at Tahrir al-Sham.

E proprio l’esperienza afghana, che ho osservato in prima persona per molti anni, a cui si è sommata la violenza conseguente all’appello di Hamas a colpire Israele e i suoi alleati, hanno svolto un ruolo determinante nella ripresa di un terrorismo ispirato ed emulativo, che si basa sulla rabbia veicolata attraverso la strategia comunicativa di Hamas, come dello Stato islamico e di al-Qa’ida, che trova in alcune minoranze ideologizzate occidentali una cassa di risonanza che sovrappone, confondendola, l’agenda violenta e terrorista di Hamas alle istanze palestinesi: elementi a cui si somma l’entusiasmo della galassia jihadista conseguente alla vittoria degli islamisti in Siria, che bene sono riusciti a mascherarsi agli occhi degli occidentali attraverso un pragmatico opportunismo.

(Foto: Wikipedia)


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