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Dal “common sense” al peso della “legacy”. Il discorso di Trump a raggi X

A ridosso della conclusione del discorso di insediamento del nuovo presidente Usa, ecco chi c’era e cosa si è detto all’evento co-organizzato da Formiche con il Centro Studi Americani

“Il 20 gennaio 2025 sarà ricordato come Liberation Day”. Così il neo-eletto presidente Donald Trump definisce il suo discorso, pregno di riferimenti programmatici e simbolici che sembrano preannunciare un mandato tutt’altro che passivo. Anzi. Quali fossero questi riferimenti, così come gli altri segnali che si sono evinti dal discorso di Trump, è stato il tema discusso dai diversi relatori che hanno preso la parola in occasione dell’evento organizzato dal Centro Studi Americani e moderato dalla direttrice di Formiche Flavia Giacobbe.

Un discorso, quello di Trump, che il professor Giovanni Orsina, direttore del dipartimento di Scienze Politiche della Luiss, definisce “piuttosto muscolare. C’erano più riferimenti sulla trasversalità alla razza e al colore, ma non al genere, che è stata causa di una frattura elettorale importante”. Analizzando semanticamente il discorso, Orsina sottolinea come l’espressione cruciale che si può individuare nel discorso inaugurale e che funge da chiave importante per capire i vari punti programmatici sia common sense. “Trump ha affermato che noi (intesa l’elitè statunitense) per anni abbiamo preso una deriva ideologico-valoriale che ci ha portato a distaccarci dagli interessi degli americani. Siamo vissuti in un mondo ideologico di sinistra, con provvedimenti che avevano senso in quella proiezione ideologica, ma che si distaccavano dagli interessi elettorali americani”. In linea con le altre esperienze populiste, che mirano a ricreare un rapporto con la vita quotidiana degli elettori.

“Sono rimasta sorpresa che non si sia focalizzato di più sull’aspetto della foreign policy”, rimarca Alissa Pavia, Associate Director per la North Africa Initiative dell’Atlantic Council. “Non ha citato quasi nulla nel suo inaugural speech, è stato abbastanza sorprendente. Il suo unico riferimento è stato al cessate il fuoco a Gaza, che ha definito come parte della sua ‘legacy’, della sua eredità. Vuole che il suo ricordo sia quello di un presidente che ha portato stabilità nel Medio Oriente e nel mondo”.

Sulla postura statunitense in politica estera ritorna anche Mario De Pizzo, non resident senior fellow dello Europe Center dell’Atlantic Council e giornalista Rai, evidenziando che anche il non detto conta: Trump non ha infatti menzionato gli Alleati. “Non ci sono stati cenni alla Russia e a Putin, e in generale a chi voglia costruire il suo mondo nuovo. Ma è un allarme fortissimo, soprattutto per i partner prima che per i competitor. Finisce l’eccezionalismo americano? Forse sì. Di sicuro, nella sua visione, comincia una stagione d’oro per l’America, lasciata in rovine dai suoi precedenti”.

Anche l’ambasciatore Giampiero Massolo, presidente di Mundys, evidenzia il peso delle parole di Trump per il futuro approccio di Washington alla foreign policy: “La cifra di questa amministrazione, che è tutt’altro che è un’amministrazione isolazionista. Casomai sarà un’amministrazione unilateralista, ma sarà sempre ben presente, nella chiave dell’America First. Quello che fa bene all’America noi lo perseguiremo, specifica Trump, seppur con l’unico caveat del ‘non con la presenza militare all’estero’”. Massolo riflette anche su come Trump sarà più facilitato a realizzare le sue ambizioni rispetto al precedente mandato. “A differenza della prima volta, lui arriva alla presidenza molto più strutturato e meno controllato. Le persone della sua amministrazione sono persone like-minded, scelte sulla base dell’affinità, e non della preparazione. Inoltre c’è un maggior consenso nel mondo verso la sua politica, quella di “America first”, che si traduce in “My country first” all’interno dei singoli Paesi.


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